venerdì 22 maggio 2015

Né eletti né elettori (Pasquale Binazzi 1909)

Né eletti né elettori (Pasquale Binazzi 1909)


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Pasquale Binazzi, autore del testo
Per quanto già molte volte, sia nelle nostre conferenze come sui nostri giornali ed opuscoli, abbiamo fino a sazietà risposto e dimostrato perché noi anarchici non dobbiamo essere né eletti né elettori, pur tuttavia i vecchi pregiudizi che annebbiano la mente di gran parte dei lavoratori, l’arte subdola di cui sono maestri i politicanti di ogni colore, ci mettono sempre nella condizione di dovere difenderci da attacchi, ora apparentemente benevoli, ora addirittura vili e triviali, coi quali lo studio degli illusi o degli intriganti cercano di menomare la propaganda nostra, affinchè non sfugga dalla loro tutela il gregge elettorale, di cui essi hanno bisogno per salire le comode e lucrose scale del potere. E lo scopo principale per cui questi uomini tanto si affannano, intrigano, corrompono, intimidiscono è per raggiungere il posto privilegiato di legislatori, mediante il quale essi possono non già rendersi interpreti della volontà di chi li elesse a deputati; ma imporre la propria e incanalare le risorse e le attività di un popolo a loro beneficio e della classe cui appartengono.
Questa è una verità troppo vecchia e resa fin troppo evidente dai fatti di tutti i giorni. Nessuno aspirerebbe al potere se questo non procacciasse dei vantaggi, dei privilegi morali, politici ed economici. Quindi il potere è per sua natura ingiusto e corruttore. Ma oltre a questa elementarissima considerazione che non può sfuggire neppure ai più bonari osservatori, ne dobbiamo fare altre ben più importanti e che sono precisamente quelle che ci fanno essere dei ferventi propagandisti dell’astensionismo nelle elezioni politiche ed amministrative. Il nostro atteggiamento e le ragioni per cui adottiamo questa linea di condotta diversificano assai dagli altri partiti o rivoluzionari o reazionari che accettano l’astensionismo, come ad esempio i mazziniani ed i clericali intransigenti. Noi non siamo astensionisti in forza di qualche pregiudiziale o perché il potere invece di avere una forma democratica repubblicana l’ha borghese e monarchica, oppure perché non è schiettamente clericale o papalina; ma perché noi siamo avversi ad ogni forma di potere costituito, perché ogni potere costituito rappresenta una sopraffazione, una violenza, un’ingiustizia.
Comprendiamo che i mali sociali si eliminano eliminando le cause che li generano, quindi logicamente siamo avversi allo Stato, qualunque sia la sua forma, perché questo rappresenta un tiranno che sta sul collo dei cittadini; un grande parassita dalle mille branche che sa tutto assimilarsi, tutto carpire senza nulla dare. Comprendiamo che accettare per principio che altri pensino per noi, studino per noi, facciano per noi è un condannarci all’inattività, è rinunciare alla nostra indipendenza, è lasciarci atrofizzare lo spirito d’iniziativa sia nel campo del pensiero che dell’azione. Un uomo, un popolo è forte, è capace di sostenere efficacemente la lotta per la vita, ed anzi riesce a trionfare sulle difficoltà che gli si parano innanzi, a misura dello spirito d’indipendenza e d’iniziativa di cui è animato. Invece la tattica elezionistica abitua gli uomini ed i popoli alla passività, tutto si limita a fare la fatica di eleggersi un rappresentante, ad accentrare così in poche mani il potere e quindi l’avvenire di un’intera nazione.
Perciò noi anarchici siamo convinti che la massima indipendenza sia dell’individuo, come di ogni singola collettività umana, sia una condizione indispensabile di rapido progresso e di sviluppo su ogni ramo di attività e una eliminazione di parassitismo e di ogni ingombrante e dannosa burocrazia. Non bisogna metter l’uomo nelle condizioni che possa diventare il padrone dell’altro uomo; non bisogna concedergli né riconcedergli un’autorità, di cui poi tutti debbano sopportare le conseguenze dannose e subire gli errori e le ingiustizie che vengono consumate in nome di un potere da noi stessi eletto. Il potere per sua natura deve sviluppare due grandi mali che paralizzano la vita di un intero popolo, e cioè l’accentramento e la burocrazia. Stabilire che a Roma si debbano discutere, approvare, dare ordini, regolare i rapporti e gli interessi che riguardano collettività che risiedono a Milano, Torino, Palermo, ecc. è quanto di più errato si possa pensare e stabilire. Tutti anche nelle più dolorose circostanze hanno potuto constatare il grande fallimento dello Stato. Infatti questo che viene costituito, secondo i suoi sostenitori, per tutelare con maggiore potenzialità, minor dispendio di forze e unità d’intenti l’interessi delle collettività che deve amministrare, in pratica ha solo saputo meritarsi la critica e l’imprecazione generale, perché invece di scongiurare dei mali, di limitare i danni con pronti provvedimenti, ha dato prova di noncuranza, di una spaventevole lentezza, causata dal suo mostruoso ingranaggio burocratico. Il recente disastro calabro-siculo informi. La logica dei fatti impone dunque di non dover dar mano ad erigere delle istituzioni, il cui esponente rappresenta quanto di male possa colpirci. Ognuno confronti il funzionamento dello Stato, che impone ai suoi rappresentanti ed esecutori l’attesa d’ordini anche nelle circostanze più gravi, col mirabile risultato che sa sempre dare l’iniziativa individuale e collettiva, ed avrà subito una dimostrazione chiara delle verità che noi andiamo da molti anni propagandando e che vengono chiamate utopie, solo perché troppo grandi e perché impongono un mutamento radicale delle attuali condizioni di cose. Tutti si devono convincere che invece dell’inutile e pesante macchina dello Stato, i popoli hanno bisogno per il loro benessere di abbattere tutti gli Stati, siano essi democratici o reazionari, per poter più presto e bene stabilire tra di loro dei rapporti di scambio rapidi, diretti e mutabili a seconda dei bisogni e delle innovazioni che vengono introdotte nelle arti, nelle scienze e nelle industrie.

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