venerdì 3 giugno 2016

MORIRE DI NONCURANZA: HARAMBE E YAMATO TANOOKA


DI ALESSANDRA COLLA

comedonchisciotte.org

Nota della redazione: Con questo articolo inizia la collaborazione con "comedonchisciotte" di ALESSANDRA COLLAche ringraziamo

Il 28 maggio si sono succeduti un paio di episodi che hanno assestato un altro duro colpo alla già scarsissima stima che nutro per la specie cui, sempre più mio malgrado, appartengo.

Il primo si è svolto negli Stati Uniti, a Cincinnati, e per fortuna ne stanno parlando tutti i media così non mi ci soffermerò troppo: il gorilla Harambe è stato abbattuto al fine di trarre in salvo un bimbo di 3 anni caduto nel suo recinto allo zoo. Caduto, cioè, nella galera in cui questo senziente non-umano era incolpevolmente rinchiuso da sempre insieme ad alcuni suoi simili.

A giudicare dai filmati che ora stanno emergendo, appare sempre più chiaro che Harambe non aveva alcuna intenzione di nuocere al piccolo umano: se avesse voluto ucciderlo, verosimilmente l’avrebbe fatto subito o comunque con tanta rapidità che abbatterlo sarebbe stata soltanto un’inutile vendetta ­— generalmente non si ha idea della forza eccezionale di questi animali, possenti come tutti gli erbivori. Piuttosto, se la gente tutt’intorno fosse stata allontanata tempestivamente e nel recinto fosse entrato qualcuno del personale alla cui presenza Harambe era abituato, con tutta probabilità l’incidente si sarebbe risolto in modo incruento.

Invece si è preferita la strada più semplice: eliminare il problema invece di risolverlo. E il problema, in questo caso, era Harambe: un raro esemplare di gorilla di pianura occidentale, una sottospecie in via di estinzione — ma soprattutto un animale. Unanimale non-umano: ovvero, nella balorda mentalità che la specie umana è venuta consolidando negli ultimi due millenni, un’entità intercambiabile, sostituibile e sacrificabile come il pezzo di ricambio di una macchina. Che Harambe fosse un individuo irripetibile, perfetto e compiuto nella sua dimensione di assoluta integrità conforme alla specie cui apparteneva, non è venuto in mente a nessuno. Che ai gorilla siano stati dedicati decenni di studi; che studiose come Dian Fossey e Jane Goodall (due donne, non a caso) abbiano consacrato la loro vita alla scoperta di queste creature meravigliose e affascinanti; che negli occhi di Harambe brillasse una scintilla più viva di quella che troppo spesso ormai si scorge negli occhi di tanti umani — tutto questo non se l’è ricordato e non l’ha notato nessuno.

Tutti quelli che erano lì, invece, erano concordi nel ritenere “normale” una visita allo zoo (questa vergogna che non dovrebbe più esistere) e “divertente” portarci i bambini: “normale” passare il tempo andando a vedere come non-vivono dei reclusi? “Divertente” mostrare queste sofferenze ai bambini educandoli all’incomprensione dell’altro-da-sé? Singolari concezioni che mi vanto di non condividere, e in questo so di essere in ottima e crescente compagnia.



Il secondo episodio si è svolto (anzi pare si stia ancora svolgendo) in Giappone, dove nella stessa giornata un’allegra famigliola in gita nella foresta alle pendici del monte Komagatake a Hokkaido, l’isola più settentrionale dell’arcipelago nipponico, ha pensato bene di infliggere una punizione indimenticabile a Yamato Tanooka, il figlioletto di 7 anni colpevole di aver tirato pietre contro auto e persone all’interno del parco. Ceffoni? Sculacciate? A letto senza cena? Molto meglio: l’hanno abbandonato nei boschi e se ne sono andati. Poi, dicono, sono tornati indietro per riprenderlo, ma ormai del bambino non c’era più traccia; come se non bastasse, pare che questi genitori modello abbiano dato l’allarme in ritardo — non si sa se nella speranza di riuscire a ritrovare il piccolo da soli, o se nel timore di dover raccontare l’accaduto ai soccorritori. Fatto sta che nel momento in cui scrivo del bimbo non si hanno notizie: la zona in cui è stato lasciato pullula di fauna selvatica, orsi compresi, e il piccolo non aveva con sé né acqua né cibo. Insomma, anche se sei adulto ma non sei Tarzan o Crocodile Dundee non è che te la puoi cavare proprio tanto facilmente.

Anche se la forma di queste due vicende sembra tanto diversa (e sono sicura che ci sarà qualcuno, nella vasta e variegata galassia animalista, pronto a dichiarare tutta la sua indifferenza per la sorte del piccolo giapponese), la loro sostanza è tragicamente uguale.

È la sostanza di quella maledizione che ci portiamo dietro da almeno due millenni (curioso come tanti mali nascano nello stesso periodo, non è vero?) e che si chiama antropocentrismo: la convinzione che l’essere umano sia al centro del mondo anzi dell’universo anzi di ogni dimensione, con i suoi corollari dai tragici esiti. Come, per esempio, la presunzione del controllo: abbiamo imbrigliato la natura fin quasi a cancellarla (ma questo è un altro discorso…), abbiamo schiavizzato le altre specie oltre a una buona fetta della nostra, abbiamo messo a punto occhi e orecchie artificiali per surrogare l’onnipresenza di quel dio che sosteniamo ci abbia creati a sua immagine e somiglianza, ci siamo arrogati il diritto di vita e di morte su tutto ciò che vive ma che, ahilui, è altro-da-noi. Peccato che questo delirio di onnipotenza, a immagine e somiglianza di quel dio, debba necessariamente scontrarsi con il mondo-là-fuori, che continua a esistere nonostante noi.

Così, sia a Cincinnati che a Hokkaido abbiamo assistito a una delle perversioni più innaturali che sia possibile concepire: l’incuranza di una specie nei confronti della propria prole — tanto cosa vuoi che succeda in uno zoo o in una meta turistica? In una struttura costruita dall’uomo per le sue esigenze o in una fettina di mondo piegata alle sue esigenze? Ma fare “come se” tutto fosse sotto controllo non significa affatto che tutto lo sia davvero: e lo prova la circostanza allarmante che in uno zoo moderno e sicuro (i due aggettivi non sono necessariamente collegati, si badi bene) un bimbetto di tre anni possa aver scavalcato la barriera di recinzione senza particolari difficoltà; lo prova l’altra circostanza, non meno allarmante, che una foresta famosa per le escursioni e apprezzata proprio per la sua wilderness possa essere considerata come il cortile di casa. In entrambi i casi è intervenuto l’imponderabile.

L’imponderabile, che c’è sempre e di per sé non può essere soggetto, mai e in nessun caso, ad alcun controllo, nella fattispecie è stato la noncuranza (distrazione a Cincinnati e superficialità a Hokkaido) dei genitori — i genitori, unica e sola garanzia di sopravvivenza per i piccoli. In particolare, essi lo sono proprio nella specie umana, che abbisogna di cure parentali molto più a lungo di qualsiasi altra specie.

Ci si sarà accorti che in poche righe ho scritto “incuranza”, “sicuro”, “noncuranza” e “cure”: perché è questa la parola chiave — “cura”, che significa sollecitudine, attenzione assidua, vigilanza premurosa, assistenza. È questo che manca ormai a gran parte della specie umana, nei confronti dei suoi stessi cuccioli e di tutto ciò che vive sul pianeta. La nostra specie ha perso ogni capacità di confrontarsi con ciò che la circonda se non in termini di totaleirresponsabilità, nelle forme dello sfruttamento, della manipolazione, della strumentalizzazione immediata in ogni campo; la nostra specie non è più capace di rispondere all’altro, e in ultimo nemmeno a se stessa. Non c’è progetto, non c’è ruolo, non c’è organizzazione — soltanto proliferazione fine a se stessa, come avviene per le cellule cancerose. Non è un’analogia calzante?

Alessandra Colla

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