Riceviamo e pubblichiamo alcune riflessioni di Adriana Vicario Chávez sulla situazione politica messicana e la trasversalità delle lotte liberazioniste.
Prima di quel giorno credevo di sapere cosa fosse la paura. Siamo tutti convinti di averla provata da bambini, guardando un film horror o in quelle serate in casa di amici quando ci si metteva a raccontare storie di streghe e fantasmi. Quella sensazione, però, assomiglia solo parzialmente alla paura che ho provato, che abbiamo provato, il 31 luglio 2015, quando abbiamo saputo che Nadia Vera e Rubén Espinosa erano stati uccisi. La notizia della morte di Rubén – fotoreporter di Città del Messico arrivato qualche anno prima nello stato del Veracruz, nel sudest messicano – per lavorare nei giornali locali, era già stata pubblicata da tutti i media; di Nadia, però, non si sapeva ancora niente.
Durante il sit-in improvvisato quella sera nella piazza principale di Xalapa, capoluogo della regione, per esprimere la nostra rabbia e il nostro dolore per l’accaduto, qualcuno ha detto: “L’omicidio di Rubén non è l’unica brutta notizia della giornata, ne dobbiamo parlare.” Ci siamo riuniti, quindi, nello studio dentistico di un’attivista una quindicina di persone umane, tutte in un modo o nell’altro coinvolte nei movimenti sociali che, dal 2009, hanno segnato la vita politica della regione. L’altra brutta notizia che ci dovevano comunicare era che, insieme a Rubén, erano state trovate uccise nel loro appartamento della capitale Nadia, attivista per i diritti umani che per anni aveva vissuto e lavorato a Xalapa, e altre tre donne (due sue coinquiline e la donna delle pulizie). Sapevamo tutti chi li aveva uccisi, anche se, da allora, le responsabilità sono state negate mille volte e l’investigazione, condotta dalla polizia di Città del Messico, è inceppata e piena d’irregolarità. Sapevamo che il responsabile era lo Stato, in particolare il governo del Veracruz, rappresentato da Javier Duarte, lo stesso che loro due – insieme ad un gruppo di giovani attivisti, per di più studenti universitari – avevano messo in discussione e combattuto per anni.
Il movimento studentesco di Xalapa nacque nel 2009, quando le aziende di trasporto locali1 decisero di aumentare il prezzo dei biglietti degli autobus. Studenti di varie Facoltà dell’Universidad Veracruzana (l’Università pubblica del Veracruz), si organizzarono per protestare contro la misura e, oltre a ottenere che le tariffe non fossero incrementate, cominciarono a formare un gruppo di studenti, insegnanti, attivisti e giornalisti che, negli anni successivi, scese in piazza per schierarsi contro le riforme costituzionali portate avanti dal Presidente della Repubblica Enrique Peña Nieto, le cosiddette “riforme strutturali”, che diedero il via alla privatizzazione di tutti i servizi e le strutture pubblici, nonché delle ricchezze naturali del territorio. I giovani attivisti crearono anche dei progetti comunitari culturali e di economia solidale e parteciparono anche ad altre lotte, come quelle dei popoli contadini e indigeni della regione che difendono il territorio dalla voracità neoliberista. Come attivisti vegani e antispecisti siamo riusciti, almeno, a introdurre nelle discussioni il tema dello sfruttamento animale e a farci ascoltare con rispetto, tentativo, come ben sappiamo, non facile all’interno dei movimenti sociali.
Il settembre 2014, però, ha segnato la storia recente del Messico e rappresenta anche l’inizio della fine di questa vorticosa tappa della storia del Veracruz. La notte tra il 26 e il 27 settembre, nello stato di Guerrero, sono stati sequestrati dalla polizia 43 studenti della scuola Normale rurale di Ayotzinapa. Da allora non si sa dove siano, e la versione del governo sulla loro morte nelle mani dei narcos non convince nessuno. Tra i mesi di ottobre e dicembre di quell’anno si sono susseguite numerose azioni di protesta in tutto il Messico per esigere che fossero trovati vivi, e nel Veracruz sono state organizzate alcune delle manifestazioni più folte e partecipate. È stato proprio in quei mesi che il governatore Javier Duarte ha cominciato a rivelare il suo volto più violento e repressivo, facendo pedinare alcuni degli studenti coinvolti nel movimento e minacciandoli in continuazione. Questa indole autoritaria e repressiva ha raggiunto l’apice nel 2015, quando nel mese di giugno delle persone armate con machete e mazze da baseball sono entrate nell’appartamento in cui otto studenti (tutti attivisti) festeggiavano un compleanno e li hanno picchiati a sangue. Il governo ha subito negato la propria partecipazione ai fatti, ma i precedenti, l’attività politica dei ragazzi e non poche indagini giornalistiche indicano che un’azione simile non poteva che venire dall’alto.
Rubén Espinosa, che all’epoca lavorava per varie testate locali, è stato tra i primi ad arrivare quella notte nell’appartamento dove si era verificato il pestaggio. Conosceva le vittime. In quegli anni aveva fotografato tutte le proteste di studenti, insegnanti, contadini, pensionati e operai contro le politiche del governo e si era schierato apertamente a favore delle mobilitazioni popolari. In particolare, era molto attivo nella difesa dei diritti dei giornalisti del Veracruz, perseguitati soprattutto per le loro inchieste sui rapporti tra i cartelli della droga e le autorità politiche di tutti i livelli. Tra il 2011 e il 2016, nello stato sono stati uccisi almeno 19 giornalisti. Questo suo impegno ha fatto sì che, pochi giorni dopo il pestaggio degli studenti, decidesse di tornare a vivere a Città del Messico perché non si sentiva più sicuro (era stato pedinato e minacciato più volte). Non immaginava che sarebbe stato inseguito fin lì, e che la morte l’avrebbe raggiunto quel venerdì 31 luglio del 2015 nell’appartamento dell’amica e attivista Nadia Vera, uccisa anche lei insieme ad altre tre donne, testimoni scomodi dei fatti.
Quando ripenso alle ore e ai giorni successivi a quell’omicidio, mi torna in mente soprattutto quella forte sensazione di paura. Paura di essere alla mercé di chi vuole annientare qualsiasi tentativo di costruzione di un mondo diverso; di chi vuole distruggere impunemente la Terra e i suoi abitanti, Umani e non, pur di ricavarne un profitto economico; di chi non ama la diversità perché fa dell’egemonia la sua ragione d’esistere. Paura di essere in balìa di un potere assoluto e smisurato. Ricordo la paura che ho provato e la ricollego a quella che provano migliaia di Animali, ogni giorno, nelle carceri e nei lager che la nostra specie ha costruito per loro. La paura la vivono sempre, nella più assoluta indifferenza. E mi continuo a ripetere che è necessario, urgente, che come antispecisti cerchiamo di avvicinarci ad altre lotte per far capire queste connessioni a chi è già impegnato su certi fronti; per far capire che la violenza e l’orrore che ci rendono vulnerabili e di cui il mondo è pieno non affliggono solo gli Umani, che per sconfiggerli del tutto dovremo pensare anche e soprattutto agli individui di altre specie. Io, insieme ad altri, ci ho provato ma, come spesso succede, il peso della realtà e il benaltrismo che esiste anche in questi movimenti, finiscono per schiacciare tutto e il compito è rimasto incompleto.
Ora i movimenti sociali che per anni hanno scandito la vita del Veracruz non esistono più. Com’era ovvio, la maggioranza degli attivisti e studenti ha preferito non rischiare. È impossibile far finta di niente. Della paura lo Stato fa un’arma potente, ma non possiamo permettere che sia essa a governare i nostri passi. In questo momento sono i popoli del sud del mondo a esserne maggiormente vittime ma, man mano che il sistema continuerà a collassare, toccherà, molto probabilmente, anche a chi oggi si trova in una situazione di apparente normalità mettere a rischio la propria calma per difendere la vita e la libertà di tutti.
Le grandi sfide per gli anni a venire saranno forse quelle di capire come affrontare le lotte in maniera trasversale, e di stabilire reti di collaborazione tra chi vuole un mondo diverso, finalmente libero dall’oppressione per tutti – ma proprio tutti – gli esseri che lo popolano. Il movimento antispecista dovrà, nel futuro immediato, pensare a come partecipare a una simile impresa senza perdere la sua essenza ma, anzi, riuscendo a propagarla il più possibile, gli altri movimenti dovranno finalmente allargare i loro orizzonti morali fino ad ora stretti nell’assurda morsa dell’antropocentrismo.
Adriana Vicario Chávez
Note:
1) Il trasporto nella maggioranza delle città messicane non è pubblico ma gestito da delle ditte private.
Fonte: Veganzetta
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