giovedì 2 marzo 2017

Difensori della Terra: tra repressione e resistenza




Quando si parla di liberazione animale spesso non si considera che la stessa rischia di rimanere relativa se, parallelamente, non si agisce per restituire alla Terra spazi liberi difendendo quelli ancora esistenti.
Un animale salvato da un macello o da un laboratorio può, apparentemente, essere considerato un animale libero perché non più soggetto a quelle dinamiche di dominio che ne privavano della propria individualità riducendolo ad uno strumento da reddito.
Dinamiche di dominio e prevaricazione che però, al momento, condizionano e limitano la libertà stessa dell’ambiente che ci circonda, che si traducono nei costanti processi di cementificazione, deforestazione, operazioni estrattive, realizzazione di grandi opere e di tutti quei progetti che rappresentano una minaccia alla sopravvivenza di chi popola la Terra.

In questi ultimi anni la repressione nei confronti di chi lotta per difendere la Terra si è fatta sempre più forte, in quanto l’operato di chi dedica la propria vita a questa causa può rappresentare una grande perdita per quei governi e multinazionali che speculano sull’integrità ambientale, calpestando la libertà di chi popola le zone colpite.
L’Honduras, insieme a Perù, Nicaragua, Congo, Guatemala, India, Messico, Indonesia, Brasile, Filippine e Colombia, rappresenta il paese più pericoloso per chi lotta per la liberazione della Terra, dove dal 2010 sono stati registrati oltre 120 omicidi che spesso vengono condotti da squadroni della morte (gruppi paramilitari) assoldati direttamente dal governo locale o dalle multinazionali al fine di garantirsi il controllo delle terre.
Le persone vengono uccise al seguito della loro opposizione a progetti minerari e idroelettrici che invadono le terre indigene, come accaduto il 3 marzo del 2016 a Berta Caceres, membro del Copinh (Council of Popular and Indigenous Organizations of Honduras), assassinata perché si batteva per la protezione del popolo Lenca.
La sua uccisione, che dopo un anno resta ancora impunita, ha mostrato definitivamente agli occhi del mondo la realtà di un paese che, come documenta la lista della morte consegnata alla Forza di Sicurezza Interistituzionale (Fusina) che nell’estate del 2015 è stata rafforzata dall’arrivo di 300 marines statunitensi e numerosi agenti dell’FBI, ha nel suo governo il principale mandante dei numerosi omicidi che hanno avuto seguito anche dopo la morte di Berta.
Nelson Garcia, attivista che si occupava di sostenere un gruppo di famiglie delle piccole comunità di Rio Lindo nella lotta contro l’accaparramento delle terre abitate da parte delle autorità locali, è stato assassinato due settimane dopo la morte di Berta.
Lesbia Yaneth Urquía è stata uccisa nel luglio del 2016 a seguito della sua opposizione al progetto Aurora, promosso e sostenuto dal vice presidente del Congresso Nazionale e dal Presidente del Partito Nazionale: in Honduras il 35% delle terre sono state destinate a progetti idroelettrici.
Jose Angel Flores e Silmer Dionisio George, attivisti appartenenti al MUCA (Movimiento Unificado Campesino Del Aguan), sono stati assassinati nell’ottobre del 2016 per il loro impegno nella lotta contro l’accaparramento delle terre (land-grabbing) da parte di alcune multinazionali.
Va ricordato che, tra il 2009 e il 2014, già 88 persone erano state uccise perché appartenenti a gruppi contadini organizzati e impegnati nel tentativo di riottenere qualche diritto sulle terre a loro strappate dalle multinazionali palmi-cultrici.
Il 17 febbraio scorso un altro assassinio si è consumato in pieno giorno quando cinque persone hanno fatto irruzione in casa di José Santos Sevilla, difensore della Terra, il cui nome come quello di Berta figurava nella lista delle persone scomode, da uccidere per garantire gli affari del governo honduregno.


José Santos Sevilla

José, membro della tribù Tolupán, è stato raggiunto da diversi colpi di pistola, ucciso per il suo impegno nella tutela ambientale e la difesa delle popolazioni indigene.
Questi sono i casi alla luce del sole, quelli di cui è stato possibile dare notizia, ma è lecito domandarsi quante altre persone ogni giorno, in diverse parti del mondo, perdano la vita mentre si impegnano nella difesa della Terra senza che di loro si sappia nulla.
Una lotta per la liberazione della Terra che vede coinvolte anche quelle tribù indigene e popoli resistenti, come quelli del Kurdistan e del Rojava che dedicano la loro esistenza nel preservare, tutelare e rinnovare quell’ideale di libertà che la Terra stessa rappresenta, calpestato e monopolizzato nel nome del profitto.

Fonte: Earth Riot

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