giovedì 18 maggio 2017

Greenwashing: la multinazionale WWF



Greenwashing è un neologismo indicante la strategia di comunicazione di certe imprese, organizzazioni o istituzioni politiche finalizzata a costruire un’immagine di sé ingannevolmente positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale, allo scopo di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dagli effetti negativi per l’ambiente dovuti alle proprie attività o ai .propri prodotti
Una strategia di marketing largamente utilizzata in questi ultimi anni da diverse multinazionali e funzionale a potenziare un altro fenomeno, quello del consumer-grabbing: l’accaparramento dei/delle consumatori/trici attraverso l’utilizzo di pubblicità ingannevole e immagini di facciata.
Alcune tendono a fermarsi sulla superficie, rivedendo esclusivamente le loro etichette e loghi, come nel caso di McDonald’s e Coca Cola che da qualche anno si sono vestite di quel verde che ricorda tanto la natura.
Altre sventolano la bandiera dell'”etica” avviando, parallelamente a linee di produzione basate sulla schiavitù e lo sfruttamento animale, la commercializzazione di prodotti a base vegetale come nel caso di Granarolo, Beretta e Algida (Unilever), per poter attirare a sé anche quella fetta dell’opinione pubblica sulla carta più critica.
Un processo che, seppur grave e volto a mantenere vivo il sistema capitalista, non deve stupire più di tanto, considerando che a condurlo sono aziende interessate esclusivamente al mero guadagno, a discapito dei delicati equilibri climatici, della libertà animale o dell’oppressione dei popoli.
Il discorso è ben diverso quando a riverniciare la propria facciata di “verde” sono quelle stesse associazioni ambientaliste che dovrebbero garantire la tutela della Terra, ma che neanche troppo misteriosamente stringono accordi (spesso economici) con quelle stesse multinazionali che l’ambiente lo saccheggiano.
Si tratta del WWF, associazione alla quale recentemente è stato assegnato il premio Greenwash Award (riconoscimento tutt’altro che ammirevole) da parte di Survival International (il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni), con la seguente motivazione:


Per avere stretto partnership con sette compagnie che stanno disboscando quasi 4 milioni di ettari di foresta appartenenti ai pigmei Baka e Bayaka, nell’Africa centrale

L’emblema delle alleanze tra WWF e multinazionali è sicuramente rappresentato da l’RSPO (tavola rotonda per l’auto certificazione dell’olio di palma sostenibile) organo di facciata fondato nel 2004 insieme ad aziende del calibro di Aak, Migros, MPOA (Malesyan Palm Oil Association) e Unilever, alle quali un anno dopo si sono aggiunte Cargill e Wilmar (quest’ultima colpevole di numerosi incendi appiccati nelle foreste del Borneo).
Una stretta collaborazione con le multinazionali che vede l’associazione ambientalista coinvolta anche in Sud America, dove negli anni ha appoggiato diverse aziende produttrici di soia geneticamente modificata, promuovendo così l’impiego di pesticidi e sostanze chimiche, e l’espansione delle monocolture intensive a discapito delle foreste originarie.
Uno dei tanti aspetti affrontati ne Il Patto del Panda, documentario del 2012 che mostra chiaramente la vera natura di quella che, a tutti gli effetti, è una multinazionale dell’attivismo, maggiormente preoccupata agli introiti piuttosto che alla tutela ambientale.
Introiti che, come mostra il documentario, il WWF si è assicurato anche attraverso l’organizzazione di safari turistici in India, alla modica cifra di 10.000 dollari, promuovendo l’invasione di habitat naturali e causando un’inquinamento ambientale e acustico che terrorizza gli animali colpiti, senza neanche creare occupazione lavorativa a favore popoli locali.
D’altronde, già nel 1997, il WWF fece una triste figura nominando Shell al Premio Ambiente, nonostante la multinazionale petrolifera nel 1995 si fosse macchiata dell’assassinio del poeta Ken-Saro Wiwa e di altri otto attivisti della tribù Ogoni, impegnati a resistere contro la colonizzazione e l’inquinamento del Delta del Niger.
Mentre il WWF nominava la Shell per questo premio, nelle carceri nigeriane 19 attivisti Ogoni venivano torturati dal regime locale per aver organizzato proteste contro la compagnia petrolifera in questione.

Fonte: Earth Riot

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