150 anni fa, avrebbero considerato assurdo se tu avessi sostenuto fine alla schiavitù.
100 anni fa ti avrebbero preso in giro se tu avessi proposto che le donne potessero avere il diritto al voto.
50 anni fa avrebbero obiettato all'idea che gli Afroamericani potessero avere eguali diritti per legge.
25 anni fa ti avrebbero chiamato un pervertito se avessi sostenuto i diritti degli omosessuali.
Oggi, ridono di te perchè proponi di porre fine alla schiavitù animale... un giorno non rideranno più!
(Gary Smith)
EXPO oltre ad essere stata un'opera faraonica, inutile, futile, vana, infruttuosa, inconcludente, invereconda e ridicola, oltre ad essere stata un'immensa mangiatoia di soldi pubblici è stata anche e soprattutto un gigantesco e folle spot pubblicitario delle multinazionali dell'alimentazione e questo articolo vuole dimostrare le nefandezze perpetrate a nostre spese:
L'eredità di Expo: sostenibilità, nuovi mercati, benessere animale
Forse incantati dal bellissimo slogan “Nutrire il pianeta”, forse storditi dalla partecipazione di Vandana Shiva al padiglione del bio, forse addomesticati dall’ondata bio-vegan seguente ci siamo un attimo scordati di EXPO 2015 e soprattutto ci siamo dimenticati di considerare e analizzare la sua eredità.
Lo spezzone antispecista, caduto nel dimenticatoio con tutta la contestazione “no expo”, dov’è finito?
Ma, soprattutto, quanti di noi si sono accorti che da EXPO in poi gli attacchi all’industria alimentare sono stati lasciati andare solo in alcune direzioni?
Quanti sono andati avanti senza soffermarsi troppo sulla parola “intensivo”?
Il sorgere di numerose attività e associazioni di categoria includenti le parole “etico”, “sostenibile”, “verde”, “slow”, “felice” ha fatto gioire pazzamente numerosi individui.
L’idea di non dover rinunciare a nessun agio perché così si può non essere più complici di aziende che rovinano il pianeta e chi ci vive, ci ha inebriato di speranza, in vista di un reale cambiamento, che comprende anche un cambio di direzione per quel che riguarda il rispetto per l’animale non umano.
Il che sarebbe ipoteticamente vero, forse, se fossero sorte nuove aziende, cooperative, artigiani “etici-per-davvero” che quindi che non contribuiscono a nessuna forma di sfruttamento e si fosse tornati ad una produzione (vegetale) estensiva, minima, sostenibile per davvero.
Il tutto accompagnato da riduzione e ridimensionamento dei nostri consumi, unite alla presa di coscienza del semplice fatto che noi stessi consumiamo troppo e pretendiamo troppe cose inutili ma che ci convinciamo essere essenziali per vivere.
Siccome l’abitante umano medio contemporaneo di questa terra non intende cambiare di una virgola lo status quo, questo non è successo. Anzi, popolazioni intere hanno aumentato i propri consumi grazie ad un benessere apparentemente incrementato dai nuovi mercati.
Quindi, per rattoppare la situazione, qualche anno prima di EXPO i “potenti” si sono riuniti varie volte ed hanno convenuto che non si poteva provvedere a soddisfare i (reali?) bisogni di tutta la popolazione del pianeta continuando a farlo con noncuranza e senza considerare gli effetti collaterali.
Ma non potevano nemmeno ammettere che questi consumi in verità andavano ridimensionati a livello globale, poiché ciò sarebbe andato a scapito delle multinazionali coinvolte.
Il “greenwashing”, quindi, sembrava la soluzione migliore anche perché attuabile in questo preciso momento ed è di questo che hanno discusso ad EXPO, decidendo i cambi di rotta “sostenibili” e ridefinendo l’import-export, sfruttando le discrepanze di regolamenti tra paese e paese..
Il “greenwashing” applicato all’allevamento è l’allevamento sostenibile, etico, la carne felice. Come se l’unica cosa importante fosse in che condizioni arrivano gli animali al mattatoio e non viene mai messo in discussione il fatto che ancora ci arrivano al mattatoio.
Considerando anche che un animale allevato meglio sarà la base di un prodotto migliore… sarà la base di un’eccellenza di un territorio.
Per quel che riguarda l’export di suini, la Cina ha acconsentito a riaprire i mercati con l’Italia.
Passata l’emergenza Vescicolare (malattia dei suini), le esportazioni di carne di maiale verso la Cina sono riprese alla grande, considerato che la Cina acquista il 48% del suo fabbisogno dall’Europa.
Per ora l’apertura è limitata solamente ad alcune Regioni, però sicuramente in via di ampliamento.
L’Italia punta al mercato delle eccellenze, ma alcune eccellenze sono frutto di tradizioni e lavorazioni particolari che richiedono cambiamenti e regole ferree per essere tali e che nell’allevamento etico trovano di sicuro terreno fertile per essere più credibili.
Riuscendo poi a bypassare alcune restrizioni al commercio di prodotti tradizionali dovute alla particolare lavorazione di certi prodotti (non perfettamente in sintonia con il pacchetto igiene e quindi potenzialmente non accettata dal mercato extra-comunità europea) o a seguito delle varie restrizioni al commercio di certe carni a causa appunto delle emergenze sanitarie (aviaria, peste suina, bse ecc.) il tutto tramite deroghe e altre direttive ad hoc, grazie alla nuova apertura ai mercati internazionali, un prodotto particolare può viaggiare tranquillo in tutto il mondo, magari grazie ad un Presidio Slow Food o a qualche altra certificazione sorta nel frattempo.
Un esempio può essere il nuovo marchio Nebrodi Sicily, voluto tra gli altri proprio anche da Slow Food, per la valorizzazione dei salumi prodotti tramite macellazione di suini neri dei Nebrodi.
Questa operazione è stata lanciata in grande stile, con l’arresto di 33 tra macellai, allevatori e funzionari asl coinvolti in macellazioni clandestine... guarda caso proprio un paio di giorni prima della presentazione del marchio.
Con questo marchio, quindi, la carne di suini semiselvatici allevati in un parco nazionale e lavorata in maniera tradizionale (senza automazioni) ma comunque monitorata e controllata dagli enti preposti, può tranquillamente essere esportata in ogni parte del mondo.
Non sarebbe più logico e ragionevole evitare ogni forma di macellazione ed allevamento in un parco nazionale?
Non avrebbe più senso preservare la fauna selvatica e semiselvatica del posto smettendola di macellare i pochi animali che hanno ancora la fortuna di nascere liberi?
Altro esempio di come le negoziazioni e gli accordi posso aiutare.
Immaginiamo di essere un grosso produttore di carne che rifornisce a livello europeo una nota catena di fast food la quale mi chiede sempre più hamburger, e che nel contempo ha anche cambiato il colore del suo logo da rosso a verde perché ora usa i pannelli fotovoltaici e dice di usare materie prime “sostenibili”.
Per prima cosa, dobbiamo anche noi diventare sostenibili, essendo fornitori delle suddette materie prime. Ci inventiamo quindi un “consorzio” sostenibile; lo facciamo accettare dimostrando come la produzione di carne consumi ed impatti quanto quella di verdura, creando la “Clessidra alimentare”.
Poi assorbiamo tutte le stalle della zona, in modo da avere un’enorme quantità di mucche e vitelli a nostra disposizione.
Facciamo uscire i suddetti animali a mangiare erba un’ora al giorno; per non inquinare molto creiamo i due macelli e impianti di trasformazione più grandi d’Europa e sostenibili grazie al biogas (quindi ricicliamo pure il letame) e diventiamo un enorme colosso del benessere animale, dell’ecologia, della sostenibilità.
Però abbiamo la possibilità di avere altri mercati fuori dall’Europa, perché probabilmente questi fast food sono anche in altre parti del mondo e vogliamo rifornire anche quelli… e allora apriamo un altro mega macello in Russia, dei mega-allevamenti in Medio Oriente e Africa, entriamo in partnership con aziende e allevamenti nord e sud americani. Così possiamo muovere allegramente i nostri tentacoli in giro per il mondo con controlli molto limitati approfittando della disparità delle normative e dei controlli tra paese e paese.
Forse già ora riuscite a capire che non c’è molto da sorridere, se avete capito di chi stiamo parlando… e sì, il fast food in questione è lo stesso che ha tenuto banco nei mesi dell’EXPO per il panino dedicato all’India, ossia vegetariano.
A me che scrivo, personalmente, sembra ci stia sfuggendo di mano il senso delle cose.
Come siamo arrivati a tutto questo? Ad esempio, ignorando le politiche internazionali perché “agli animali non interessa nulla della politica”.
Limitandoci a pensare all’animale come un essere indifeso da commiserare, limitandoci a pensare che nell’allevamento intensivo stà peggio che dal contadino, limitandoci ad un protezionismo che ci ha portati ad andare in piazza vestiti da mucca magari senza nemmeno averne conosciuta una prima e pensando che starebbe bene nel giardino di casa.
Immagini di agnelli con il pannolino, vitelli sul divano, maialini che mangiano dal tavolo, caprette alle quali si lascia leccare qualsiasi avanzo dal nostro piatto.
Ci siamo inchiodati al voler salvare gli animali per trattarli come bambini ossia come cuccioli che non sanno vivere senza le cure e la presenza di una sorta di figura materna umana.
L’immagine che diamo di loro è di eterni bambini, sempre cuccioli come se non crescessero mai ma restassero sempre a misura di coccola.
Tutte cose che l’industria ha sfruttato per distrarci e per attuare delle misure che per noi sono ancora ignobili ma che all’occhio del consumatore medio sembrano migliorie meravigliose.
E’ vero che con il passare assillante di immagini di animali incatenati, compressi, sporchi, affamati molte persone si sono fatte un’idea triste e malsana degli allevamenti intensivi, ma è anche vero che a volte la nostra visione distorta ed antropocentrica del rapporto con l’altro animale sembra eccessiva, malata e stupida.
La via di mezzo accettabile è la mucca al pascolo, la gallina che razzola, il maiale che sgrufola.
Non importa se lo fa solo per un’ora al giorno, o se insieme a lui ci sono altri 1000 che lo fanno, non importa se comunque verrà ucciso prima che il suo tempo si sia compiuto.
La pietà per l’animale, quel sentimento che porta a dire “poverino, ma come vive?” ma che porta anche a dire “se lo tratto bene alla fin fine muore dopo aver vissuto una bella vita”. È la compassione che induce a dare un sorso d’acqua agli animali che vanno al macello, come se a loro che vanno a morire importasse molto di noi con la bottiglietta in mano, ponendoci il problema di quanto viaggiano e in che condizioni viaggiano, senza porci il problema della loro vita precedente, del viaggio stesso e della sua destinazione.
Questo è quello che sento quando mi rapporto con persone che “amano gli animali”.
Il concetto di amore è relativo, settoriale e soggettivo.
Amano quel maiale specifico ma posso tranquillamente mangiare un pezzo di un altro maiale.
Non si rischia che le persone sapendo che un maiale è trattato bene in un allevamento, arrivino ad accettare di mangiare proprio quel maiale?
E questo già accade, purtroppo e forse succede dalla notte dei tempi visto che anni fa chi voleva mangiare carne doveva cacciare o allevare ed uccidere da se i propri animali… pur amandoli anche se in maniera distorta.
Io non amo gli animali, li rispetto infinitamente e per loro auspico una vita piena di libertà con tutti i suoi pro e i suoi contro ovvero una vita davvero degna di essere vissuta.
E mi rendo conto che è sempre più difficile toccare la sensibilità della gente per far capire loro questo mio sentimento.
E lo è grazie a queste nuove strategie pseudo-animaliste adottate dalle industrie nel nome della foga di sfamare il pianeta senza condannarlo al collasso definitivo ma ignorando ancora una volta la sorte degli schiavi.
La vera eredità di EXPO è questa, in sunto.
Rimangono i poteri forti di prima, però tutti si devono adeguare e devono cercare di fare qualcosa per migliorarsi per soddisfare questa nuova direttiva che ci salverà tutti.
Molti di questi soggetti sono stati aiutati, in questo opera di “ripulitura” della propria facciata, dalla solita simpaticissima CIWF e da altre organizzazioni ambientaliste ed animaliste internazionali (ad es. WWF e Humane society) che hanno studiato le problematiche dell’allevamento e le regole chiave del benessere animale per suini, bovini, polli.
Altre organizzazioni ed enti che lavorano per le scienze zootecniche hanno insegnato agli allevatori come applicarle, alcuni veterinari hanno studiato le cure alternative, altri hanno richiesto nuove etichettature, certificazioni, presidi, marchi e tutto il necessario per dare alle persone compassionevoli una carne buona sotto tanti punti di vista… sostenibile, etica, consapevole, felice.
A me pare però che manchi una consapevolezza fondamentale, ossia la consapevolezza che in tutte queste nuove terminologie e tecnologie ci si dimentica sempre che si sta parlando di individui che nascono, soffono, fuggono, comunicano.
E che noi continuiamo a non ascoltare, credendoli muti e nelle nostre mani, anche nella salvezza.
L’idea che alcune organizzazioni abbiano contribuito a migliorare le condizioni di allevamento anziché contrastare l’allevamento stesso non mi fa dormire la notte.
Qualcuno potrebbe dire che è un passo avanti, che eliminare tout court l’allevamento è un’utopia per ora irrealizzabile e che quindi bisogna accontentarsi e dare riconoscenza a queste aziende che per pietà ora trattano meglio gli animali che allevano e che producono anche prodotti vegetariani o addirittura vegani.
Proprio perché rispetto l’animale non posso solidarizzare con queste aziende.
Perché quello che per loro sono solo numeri e kg, per me sono persone, sentimenti, personalità, furbizia.
Non può esistere alcuna solidarietà nei confronti di chi rinchiude e riduce in prigionia un individuo qualsiasi, nemmeno se la prigione in questione è un allegro campo dove pascolare o zappare.
Nessun prato verde o florida vigna, nessun ombroso frutteto o solare uliveto possono assomigliare minimamente a quello che è la completa libertà, se la finalità nascosta è lo sfruttamento, sempre e comunque.
Una prigione è una prigione, una gabbia è una gabbia, un allevamento è un allevamento.
Fonte: Bioviolenza
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