lunedì 23 aprile 2018

Non c'è giustizia senza sensibilità


Non c'è un momento in particolare, un tempo preciso per liberarsi dalla schiavitù, la propensione all'osservare autonomamente può essere sufficiente. In opposizione al degrado che ci circonda è forse una delle ultime armi che ognun@ di noi ha, scardinare le catene guardando dal lato opposto di quello che il sistema ci indica. Così non si sbaglia mai. Diventa poi più semplice seguire la nostra attitudine al sentire l'altro, a chi, senza ragione alcuna, viene sfruttat@. Nessuna religione o potere laico può convincermi o distrarmi nella mia visuale, poiché ho la certezza che siano proprio loro a moltiplicare i nostri ferri. Oggi il vento giocava a rincorrere le nuvole in quota, peccato non essere riuscito a parteciparvi. Poi, poco dopo, il cielo è esploso con i colori della primavera, lacerando in lontananza i suoi ultimi lamenti. Che follia fermarsi a osservare, si rischia di tornare, senza dolore, liber#...


Non c'è giustizia senza sensibilità

Ieri un mio amico mi ha fatto riflettere su una cosa che molti di noi, presi come siamo dal dimostrare l'aspetto politico e sociale dell'antispecismo con argomentazioni razionali, abbiamo accantonato, ma dalla quale, non possiamo prescindere: la sensibilità.

Ora, è vero che la sensibilità è anche una questione culturale e sociale perché è la cultura in cui viviamo e in particolare l'ambiente in cui cresciamo che ci insegnano a dirigere il nostro sentire in particolare verso alcuni e meno o per niente verso altri, ma è altrettanto vero che senza questo sentire ogni nostra argomentazione, per quanto forte e inoppugnabile, cadrà nel vuoto, cioè non troverà gli appigli giusti per radicarsi e trasformarsi poi in una battaglia sociale.
Se la persona con cui stiamo parlando non ha la nostra stessa sensibilità, di fronte a video di animali al macello e dentro gli allevamenti non proverà mai i nostri sentimenti di ingiustizia o li proverà in maniera attenuata. Ciò che a noi indigna e fa star male - lo sguardo degli animali dentro i tir, i loro corpi ammassati e martoriati e poi fatti a pezzi - può lasciare altri del tutto o in parte indifferenti.
Le persone possono dirci: ok, per te è sbagliato uccidere animali, ma a me non importa nulla perché la loro sofferenza non mi tocca e di conseguenza non percepisco quanto ciò sia ingiusto.

Cos'è che ci fa dire che qualcosa è ingiusto? Il sentire che quello che si sta facendo a qualcun altro ci farebbe star male se fosse fatto a noi. Ma se questo sentire non c'è, l'ingiustizia non si percepisce.

E così noi ci sbracciamo e sgoliamo per spiegare quanto lo specismo sia affine al razzismo, al fascismo e ad altre forme di oppressioni; ci spertichiamo in sofisticate analisi politiche sulla nascita della società del dominio e facciamo analogie su questa o quell'altra forma di oppressione. Ma senza il sentire, cioè senza una certa forma di sensibilità, tutte queste argomentazioni scivolano via. O meglio, si riconoscono magari come vere e persino ovvie, ma non portano le persone a sentire quell'urgenza di volerle cambiare, a sentire quell'intima ribellione.

Se vogliamo cambiare la società, dobbiamo cambiare la sensibilità. Dobbiamo fare in modo che la cultura in cui cresciamo ci insegni a essere sensibili verso gli altri, allo stesso modo in cui ci insegna a essere sensibili verso i bambini o altre persone; dobbiamo fare in modo che non ci siano più individui di serie A e di serie B e che tutti siano considerati importanti.

Infine, l'altro giorno scrivevo che la nostra è una battaglia di giustizia e non di amore per gli animali; e lo penso ancora. Ma il il percepire qualcosa come ingiusto o giusto dipende dalla sensibilità, dal sentire.

La battaglia per i diritti animali non ha precedenti nella storia perché richiede una forma di sensibilità estesa ad individui che non sono come noi e che una cultura millenaria ci ha insegnato a considerare inferiori e utili al solo scopo di soddisfare alcuni nostri interessi; individui di cui non comprendiamo il linguaggio e nemmeno la mente. Anzi, a cui nemmeno attribuiamo un linguaggio o una mente.
Dobbiamo scendere in piazza in loro rappresentanza per chiedere il loro diritto alla vita e a non essere più considerati risorse rinnovabili. In piazza non ci sono loro, se non nelle foto o video. E non c'è questa sensibilità condivisa che porta le persone a percepire la tragedia del loro sfruttamento.
Dobbiamo tener conto di tutto questo se vogliamo essere efficaci.
Dobbiamo smetterla di illuderci che basterà dire alle persone cosa avviene dentro gli allevamenti e mattatoi per farle schierare dalla parte degli animali.

Forse verrà il giorno in cui, anche se in pochi, dovremo pretendere la loro liberazione, anche se non sarà ancora capita dai più. Ma per pretenderla dovremo arrivare a essere una massa critica abbastanza significativa da essere ascoltata da chi detiene gli strumenti legislativi; si dovrà arrivare a una sorta di circolo virtuoso in cui l'aumento della sensibilità porti all'approvazione di determinate leggi e misure educative (per misure educative ovviamente non intendo nulla di coercitivo, bensì fare cultura nelle scuole, attraverso l'informazione, l'arte, la letteratura, il cinema, il linguaggio, la filosofia, l'economia ed entrando in ogni settore perché non c' settore che non sia intriso di specismo) e queste, a loro volta, modifichino la sensibilità e così via attraverso una serie di cerchi concentrici che arrivino al cuore della liberazione animale.

Per ora le leggi tutelano in parte solo gli animali cosiddetti da affezione e questo perché appunto c'è una sensibilità condivisa dalla maggioranza.

Oppure, può essere che semplicemente lo sfruttamento degli animali finirà quando non sarà più conveniente sotto il profilo economico. Finirà per motivi economici e non etici.

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