mercoledì 22 agosto 2018

BOMARZO IL PARCO DEI MOSTRI


Come e perché attirare i pipistrelli nel vostro giardino

I pipistrelli sono una presenza naturale e un elemento importante negli ecosistemi. Forse non tutti ne sono a conoscenza ma, proprio come le api, alcuni pipistrelli, soprattutto quelli delle zone tropicali, svolgono la funzione di impollinatori. È difficile riuscire ad avvistare un pipistrello. Si inizia ormai a parlare di una vera e propria estinzione in proposito. Inoltre, come è ben noto, i pipistrelli amano la vita notturna.

Entrare a contatto con uno di loro di giorno potrebbe risultare piuttosto difficile, a meno di non avere a disposizione una bat-box in cui sbirciare di tanto in tanto, per riuscire a capire se un pipistrello abbia finalmente deciso di utilizzarla come rifugio. È proprio l'assenza di rifugi adatti che ha fatto desistere i pipistrelli dall'avvicinarsi alle nostre case e ai giardini. Eppure la loro presenza in natura è importantissima.

I pipistrelli nettarinivori si muovono da una pianta all'altra, di fiore in fiore, per nutrirsi. Raccolgono e trasportano il polline e giocano in questo modo un ruolo prezioso per permettere dapprima la fioritura e in seguito lo sviluppo dei frutti. I pipistrelli che si nutrono di nettare amano scegliere luoghi dove ci sarà del cibo a nostra disposizione.


Dall'amica scrittrice giornalista d'inchiesta e blogger Daniela Zini un fantastico reportage su uno dei luoghi magici d'Italia, il Parco dei Mostri di Bomarzo, una località suggestiva, incantevole e fascinosa, con una parvenza di aria lugubre e tenebrosa, un invito a leggere questo intrigante, affascinante e coinvolgente articolo ed a visitare il suo blog...

BOMARZO IL PARCO DEI MOSTRI

Sensazioni contrastanti e, spesso, sconvolgenti afferrano i visitatori del Parco dei Mostri di Bomarzo. Si entra in casa… e si è presi dal capogiro…
Accade a chiunque metta piede in una casetta a due piani, edificata fuori centro, su un terreno inclinato. Ma questa non è che una delle impressioni che si possono trarre dalle sculture e dalle costruzioni che – secondo la Leggenda – sarebbero opera di schiavi turchi catturati a Lepanto da un principe Orsini.




https://www.youtube.com/watch?v=IMJMHnwlDps
https://www.youtube.com/watch?v=yTYZaoERZGg
https://www.youtube.com/watch?v=QICXqZD1uDg
https://www.youtube.com/watch?v=Rmjqhl9Dm1o


“Come mai, mentre il mondo si votava alla grazia, il Principe di Palagonia si votava all’orrore? Era una premonizione? Una penitenza? Una perversione?”
Questo interrogativo che Leonardo Sciascia [1921-1989] pone nella introduzione al libro di documentazione fotografica, che Ferdinando Scianna [1943] ha dedicato a La Villa dei mostri [Torino, Einaudi, 1977] – vale a dire la Villa Palagonia, a Bagheria, presso Palermo [https://www.youtube.com/watch?v=0euMenLRjwo] potrebbe cadere, egualmente, a segno a proposito del Parco dei Mostri o Bosco Sacro di Bomarzo, non lontano da Viterbo, un complesso monumentale, tra i più suggestivi e singolari del Lazio, per secoli, ignorato dagli italiani e lontanissimo dagli schermi tradizionali dell’arte occidentale.
“Per la sua folla di bizzarre e mostruose creature disseminate tra sterpi e rovi senza ordine apparente, questo luogo”,
scrive, infatti, Mario Praz [1896-1982],
“fa pensare a certi angoli religiosi e sinistri dell’Italia e della Cina, agli elefanti del tempio di Subramanya, ai draghi, agli ippogrifi rampanti di Madura, al Cammino degli Spiriti presso Nankou, agli unicorni a guardia del fiume Fen.”



Qualunque sia la interpretazione che si preferisca dargli, di sicuro resta che visitare questo complesso è una delle esperienze più interessanti e stupefacenti dal punto di vista turistico, che tutti gli italiani dovrebbero fare, almeno per non essere costretti a dare ragione ad André Paul Edouard Pieyre de Mandiargues [1909-1991], che in una sua pubblicazione sull’argomento rimprovera gli italiani di non amare e neppure saper vedere il bizzarro, tranne quando si tratti di nuove forme di maccheroni.
Bomarzo, piccolo centro di 2mila anime a poco più di un’ora da Roma, è l’antica Polimartium, uno dei tanti centri storici, di cui è punteggiato il Lazio e sul quale hanno lasciato la griffe le varie invasioni e civiltà che vi si sono avvicendate.
Ha avuto il suo Lucumone etrusco; ha udito risuonare sul suo selciato il passo pesante dei conquistatori romani; ha goduto di riflesso della luminosa civiltà greca; ha avuto, a suo tempo, una schiusa di Santi, Eutizio, Lanno, Valentino, Ilario, Secondo, Anselmo; ha subito le invasioni dei Goti, dei Bizantini, dei Longobardi, dei Franchi, finché è divenuto feudo degli Orsini, il cui palazzo domina, ancora oggi, l’antico borgo.
Poco o nulla distinguerebbe Bomarzo dai tanti e tanti paesini laziali, se a renderlo diverso da tutti gli altri non intervenisse il famoso Parco dei Mostri, il mastodontico insieme, ideato dall’architetto Pirro Ligorio [1513-1583], su commissione del principe Pierfrancesco Orsini [1523-1585], e formato da statue e raffigurazioni alte ciascuna dieci e più metri, la cui suggestione nasce non soltanto dalla cupa solitudine claustrale del giardino, ma anche dalla particolare qualità della pietra usata come materia prima, più volte essa stessa despota della forma esteriore di alcune statue, dalle sfumature di colore della roccia vulcanica affiorante dal terreno e dalla sua docilità allo scalpello.




Nessuna fotografia, tranne che non ritragga accanto a esse almeno un uomo, che ne chiarisca e ne delimiti le proporzioni, riesce a dare l’idea della grandiosità di queste figure colossali e stravaganti, disseminate, qui e là, senza alcuna norma né schema, in questo Bosco Sacro, che altro non è se non il giardino degli Orsini, così trasformato, nel 1552, da Pierfrancesco detto Vicino, il quale, dopo aver partecipato valorosamente alla guerra delle Fiandre e a quella di Paolo IV contro gli spagnoli, abbandonò misteriosamente la carriera militare e si ritirò nel suo feudo con la giovane moglie Giulia Farnese, che morì nel 1560. E, qui, diede sfogo al suo ingegno fantasioso e capriccioso, popolando il parco di così bizzarre sculture.
Esempi di stravaganza non mancano, certamente, nell’arte del Cinquecento, ma, qui, si è certamente andati oltre, nella concretizzazione del desiderio ambizioso di suscitare meraviglia e orrore insieme. Inciso sul sasso, il singolare invito dell’Orsini ai visitatori:

Voi che pel mondo gite errando vaghi
Di veder meraviglie alte et stupende
Venite qua, dove son facce orrende
Elefanti leoni, orchi et draghi


Più avanti, il concetto è ribadito ancora:

Tu ch’entri qua con mente
Parte e parte
Et dimmi poi se tante meraviglie
Sien fatte per inganno o pur per arte.


Appena ci si inoltra, a pochi metri da un tempietto fatto costruire da Vicino Orsini, in memoria della moglie, l’occhio è subito attratto da alcuni vasi colossali, alti più di quattro metri che sembrano prendere spicco appunto dalla normalità – l’unica! – della costruzione votiva.



Poco più avanti, tre enormi gruppi plastici: una sirena con la coda biforcuta; una coppia di leoni; un ibrido insieme costituito da un torso di donna con le gambe di toro, la coda di drago, le ali di pipistrello.




Questi mostri ci preparano ad affrontare coraggiosamente la Porta dell’Inferno, una enorme testa di orco, i cui occhi hanno la grandezza di due finestre e la bocca è un vero e proprio portone che immette in una stanza nella quale possono trovare posto trenta persone.






E, poi, ancora sfingi accovacciate, urne funerarie, figurazioni di fiumi, enormi fontane fanno capolino, qui e là, barrando il passo al turista.
Ecco un enorme drago che schiaccia con una zampa un cane, mentre altri tre lo azzannano al petto e alle zampe; una favolosa dea marina attorniata da tritoni e demoni serpentini; un gigantesco elefante che sorregge sulla groppa una torre e trascina, avvolto nella proboscide, un soldato nemico; un’altra portentosa composizione riproduce un drago accovacciato, sulla cui schiena vi è un enorme globo, sormontato, a sua volta, da un castello, tutto ben rifinito con torri e merli.








Più in là la lotta di Ercole e Caco, riprodotti nelle gigantesche proporzioni che la tradizione ci ha raccontato e, infine, una tartaruga, posta accanto a un ruscello con gli occhi che sembrano fissare con diffidente paura qualcosa dinanzi, a breve distanza. È un’enorme balena che emerge dalla terra come dai flutti del mare.




Né è tutto. Poco lontana, isolata su un masso, una casetta a due piani, ciascuno composto di un solo locale, dedicata al cardinale Cristoforo Madruzzo [1512-1578]. Se vi si entra senza essere a conoscenza della sua singolare costruzione, si è sorpresi dal capogiro e da una sgradevole sensazione di mancanza di equilibrio, che provoca fastidio e, al contempo, rafforza il carattere generale di irrealtà. È, infatti, costruita fuori centro, su un terreno inclinato – non si sa se scelto, così, a bella posta o reso tale dalla smania dell’inusitato al limite della follia – ed è essa stessa inclinata.










Impossibile descrivere il disorientamento del panorama tutto sbilenco che si scorge dalle finestre e la fatica di camminare strisciando lungo le pareti a occhi chiusi, come non vedenti.



Di fronte a tanto sbalordimento, un certo senso di serenità – sempre, si intende, nel… rispetto delle proporzioni fuori misura – subentra nell’addentrarsi nello Xisto – si chiamava, così, nell’Antica Grecia, lo spiazzo, dove si esercitavano gli atleti – a guardia del quale vi è un cerbero tricipite, perché è un luogo spianato, delimitato sui due lati più lunghi da due file di pigne decorative e, nel fondo, due enormi orsi di pietra, emblemi degli Orsini, reggenti dei rosoni lavorati. Poco più avanti si slarga in una piazzola, chiusa ai lati da due sirene le cui lunghe code fungono da sedili.





Come abbiamo detto all’inizio, ancora oggi, i nomi degli artefici di questo incredibile zoo di pietra sono ignoti, anche se non si esclude che possa trattarsi di manodopera locale – naturalmente qualificatissima, epigoni di quei meravigliosi artisti che furono gli Etruschi – chiamata dall’Orsini, nel cui fertile cervello l’idea di creare questo bizzarro ornamento al suo giardino era germogliata dalla sua naturale inclinazione verso forme d’arte stravaganti; ma era, senza dubbio alcuno, anche accresciuta dall’influenza che esercitavano su di lui personaggi, che era solito frequentare, quali Annibal Caro [1507-1566],Francesco Maria Molza [1489-1544], Angelo Claudio Tolomei [1492 ca.-1556], il cardinale Cristoforo Madruzzo, principe-vescovo di Trento e altri, che, dalla loro stessa cultura, traevano interesse verso ogni forma d’arte.





Una delle tante leggende sorte intorno a questa villa vuole, invece, che le statue siano state opera degli schiavi turchi, che uno degli Orsini trascinò con sé, in Italia, dopo la Battaglia di Lepanto [7 ottobre 1571], e che rinchiuse, poi, nel giardino, adibendoli al non lieve compito di sbozzare gli enormi massi di pietra.
Le date smentirebbero l’ipotesi, essendo la Battaglia di Lepanto posteriore all’inizio della sistemazione del Bosco Sacro; ma, di certo, la ferocia, la violenza e la minaccia, che emanano dalle mirabolanti sculture, si direbbero senza dubbio alcuno, nate dalla rabbia e dall’esasperazione dei prigionieri e rimaste là, testimoni e specchi deformanti di un profondo tormento interiore.

Daniela Zini 

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