martedì 28 agosto 2018

Schiavitù minorile: Imran cronaca di una morte annunciata

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Nei confronti della famigerata cinica e infame famiglia Benetton ho una sviscerata incommensurabile e folle avversione, ricordo ancora quando l'anno scorso a Roma durante un dibattito nel quale si parlava delle atrocità ed efferatezze compiute da questa trucida famiglia nei confronti del popolo Mapuche in Patagonia mi sono talmente alterato parlando di questi loschi figuri che mi è venuto un infarto, sono crollato come una pera cotta, intervento d'urgenza, quattro giorni in coma ed ho rischiato di rimanerci secco, ancora adesso dopo un anno dall'intervento sono qui a leccarmi le ferite, non finirò mai di ringraziare Olmo Vallisnera per le sue appassionate parole di conforto... Boicottiamo Benetton e tutte queste putride multinazionali sfruttatrici, non compriamo nemmeno un pedalino nei loro squallidi e tristi negozi!!!

Nino Malgeri


Imran è uno dei tanti, tantissimi bambini che ha perso la vita, in condizioni drammatiche, sepolto dai lavori massacranti del tessile. In Bangladesh. Unn paese dove le grandi marche europee e americane, della moda, dettano legge. Condannate per "diritti umani negati" continuano a sfruttare i minori per fabbricare vestiti. Nonostante lo "scandalo" mondiale dopo il crollo, nel 2013, del palazzo-lager "Rana Plaza", a Dacca, la capitale del Bangladesh (dove morirono centinaia di donne e bambini) ancora oggi utilizzano la mano d'opera di giovanissimi schiavi, per il loro profitto. Blu Jeans decolorati, venduti nei negozi occidentali, sono creati mediante prodotti tossici. E i bambini che lì, lavorano, ne sono immersi fino alle caviglie. Le malattie comuni sono: cecità, scompensi cardiaci, problemi gravissimi ai polmoni. Morte. Vestiti e giacche, cucite in condizioni inenarrabili: garage sottoterra, roventi, fabbriche in lamiera e plastica, palazzi di cemento con le fondamenta nel fango, ritmi di lavoro di 16-18 ore. Le grandi marche sono francesi, americane, inglesi, australiane e naturalmente italiane. In Bangladesh, gli stilisti italiani sono potenti. Naturalmente non sono solo italiane le aziende che sfruttano, ma sono tra le peggiori. Per rendere l'idea del numero di aziende presenti in Bangladesh, nel tessile: North Face, Timberland, Wrangler, Foot Locker , Zara, Pull and Bear, Bershka, Oysho, Stradivarius, Primark, Tesco, Inditex, H&M, Fast Retailing, Primark, C&A, Esprit, PVH, Marks & Spencer, Carrefour, Otto, Target, American Eagle,, Camaïeu, El Corte Inglés, Fast Retailing, Intersport,Walmart, Mango, C&A, El Corte Ingles, Kik, Walt Disney, H&M, Manifattura Corona, Yes Zee e naturalmente, la sempre presente, Benetton. Dove c'è lei, ci sono sempre disastri. E queste sono solo le maggiori, poi ci sono centinaia di aziende occidentali presenti, che utilizzano il lavoro a basso costo. Italiane comprese.

Imran non era un bambino, era un numero.

Questo è un mio racconto per dare un senso al ricordo. Alla memoria delle migliaia di vittime sepolte dai vestiti del capitale.

Olmo Vallisnera

Schiavitù minorile: Imran cronaca di una morte annunciata

Imran e i sepolti di Dacca

Giovedì:

Il sole sembra far fatica. Non riesce a cantare il suo calore. I raggi penetrano, affaticati, tra le foglie, filtrando alcune gocce di rugiada che ancora, riposano sul terreno. Silenzio. Un silenzio che solo l’alba può dare. Rotto soltanto da un battito delicato di ali, che leggere affondano, le cromature di una mattina come tante. Poi, d’un tratto, un grido. Lacerante, ineluttabile, devastante, doloroso. Si alza in verticale da una baracca di lamiera e si infila tra le nuvole viola di monossido. Sembra non finire mai, allenta la presa per qualche secondo per dare aria a polmoni malati e poi, riacquista vigore. L’alba, di questo giovedi assonnato, sembra non accorgersi dell’immenso dolore che traspira dai fumi di condensa delle fabbriche tessili. Palazzi-carcere che, come una ragnatela, circondano la baraccopoli.

L’urlo non smette: Imran è morto.

Attimi di pace sospesa e poi, altre grida sfondano il riposo, di poche ore, degli schiavi di Dacca. La capitale del Bangladesh. Parenti e amici, sorelle e fratelli. Una madre non può sopportare tale violenza. Sfinita, si appoggia al gracile corpicino, abbracciandolo e cingendolo. I polsi della donna ustionati da lavori che qui sono la norma. Sono la condanna. Il piccolo Imran era uno schiavo di dieci anni che lavorava 18 ore al giorno. Un sepolto vivo immerso fino alle caviglie da agenti chimici, terribili, che servono per decolorare i pantaloni e renderli chiari. “Simpatici e affascinanti” per i privilegiati europei. Mutilato, il bambino, è morto cieco. Con i polmoni in fiamme, le dita devastate dal contatto. Ma Imran non è un bambino, è un numero. Un esile numero imprigionato in aziende tessili senza finestre, dove manca l’aria e la salvezza. Sotterrato da tonnellate di indumenti che solo dita minuscole possono manovrare. Aziende straniere che in Bangladesh comandano, da sultani. Sono loro a dettare le regole di chi deve vivere e chi deve morire. Imran non è un bambino, è solo un numero. A mezzogiorno sarà già sostituito da piccoli polmoni che, ancora resistono alle atroci condizioni di lavoro, sostituito in fretta da aziende che non possono rallentare il loro profitto.

Venerdi:

Una piccola folla colorata, da antichi vestiti delicati, è in piedi davanti alla porta di lamiera della stanza di Imran. Silenziosa, composta. Una piccola onda di fiume sferzata da venti tossici. La madre, persa, per sempre. Una donna piegata dal dolore, vedova di un marito strappato da artigli bianchi, puliti, sorridenti. Sdraiato, davanti a lei, c’e’ Imran. Sembra dormire. Finalmente dormire. Un riposo quieto, un riposo di un bambino. Una madre, con gli occhi profondi come i pozzi neri, di oasi che sono solo miraggio, chiama i nomi dei suoi figli morti. Morti, per riempire le nostre giornate di acquisti. Ma Imran non e’ un bambino, Imran è solo un numero. Domani riposerà coi suoi fratelli. Domani riposerà. Il funerale, immenso. Un serpente di diseredati, reietti, oppressi, ridotti alla fame, attraversa le strade di rifiuti, portando in spalla il piccolo Imran. Il silenzio è irreale. Si insinua nella pelle, nei tendini, fino al cuore, ed è lì che esplode. Un silenzio che urla la disperazione dei bambini. Corpi che non contano, segregati e umiliati.

Sabato:

Una pioggia sottile, puzzolente, avvolge la baraccopoli. Una città di lamiere e amianto, circondata dai grattacieli. Migliaia di occhi bagnati percorrono vie di fango per raggiungere stanze buie, senza speranza, senza scelta, senza futuro. Centinaia di metri più a nord i palazzi. Mostri alti 50 metri di vetri, ordinati, puliti. Qui anche la pioggia perde l’odore di morte per profumare di colonia. Dietro finestre blindate, si brinda a una nuova stagione di moda. Calici di cristallo si alzano, ghigni terrificanti si perdono in fiumi d’oro, risate e strette di mano. Contratti e commissioni. Qui l’europa è vicina. Le multinazionali del vestiario hanno gli uomini e le donne più spregiudicate in queste zone.

Domenica:

Il sole si rialza, guarda in basso, osserva la morte, posa un raggio su Imran e poi, fa un passo indietro. Torna a piovere. Gocce inquinate.

Perchè Imran non e’ un bambino, non è neanche un nome.

Imran è solo un numero…

Lunedi:

il racconto è finito.

Le città europee e americane si svegliano ridenti. Le vie tappezzate da gigantografie di moda. Vestiti costosi, con le cuciture perfette, invisibili. Cuciture per mani minuscole. Fotografi conniventi, ritraggono donne e bambini con i sorrisi. Vestiti, con tela pregiata. I poster, grandi come case, hanno un messaggio: riposante, antirazzista, solidale. E’ la menzogna diventata religione. E’ il trionfo della macchina del capitale. Crollano i palazzi sotterrando migliaia di innocenti.

(la strage del Rana Plaza nel 2013, un edificio lager immenso, nella grande area di Dacca).

Crollano i ponti (Genova, Nuova Delhi, Hanoi, Phnom Penh, Bogotà). Crollano le speranze e sotto le macerie finiscono gli ultimi. Come sempre. Lo sfruttamento minorile aumenta esponenzialmente, nel mondo, ogni giorno. Sono decine di milioni. Il 71 per cento degli schiavi nel mondo, sono donne e bambini. Ma questo non ferma, ovviamente, i leviatani del tessile mondiale. Le aziende dell’alta moda (tra cui spiccano quelle italiane) continuano, inesorabili, a sfruttare nonostante: le multe milionarie, i divieti ad esercitare in condizioni inenarrabili, le accuse, da parte delle organizzazioni mondiali, di “riduzione in schiavitù” e “diritti umani negati”. Continuano perché protette. I grandi manager osservano tutto dai loro elicotteri.

Un sigaro, un bicchiere di champagne…




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Tutti noi antispecisti vorremmo che tutti gli animali fossero liberi, ma al momento attuale l'unica soluzione auspicabile sarebbe che l'essere umano sparisse dal pianeta terra, come descritto nella parte iniziale del post, nel frattempo che questa eventualità si concretizzi (e dai cambiamenti climatici in atto, non dovrebbe essere un momento tanto lontano, noi umani siamo seduti sul ramo dell'albero che stiamo segando, e manca pochissimo alla catastrofe), bisogna pensare agli animali liberati dagli allevamenti e dai macelli, in Italia e nel mondo esistono tanti rifugi o santuari per animali liberati, e bisogna aiutarli, a supporto di questi luoghi magici, da qualche mese ho formato un gruppo su Facebook: Canapa e Vegan per I Rifugi di Animali Liberi, al momento siamo oltre quattromila iscritti, vorrei che mi deste una mano a farlo crescere, invitando ed iscrivendo i vostri amici;
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