mercoledì 26 settembre 2018

Il volo silenzioso dell’Allocco: un racconto di fine estate

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Il barbagianni, magnifico re bianco della notte

La Natura è un'imbattibile creatrice di bellezza: tutta la varietà degli esseri viventi, interi ecosistemi ma anche paesaggi naturali, vanno a comporre un puzzle d'infinita meraviglia. In tutto questo, ci sono animali che più di altri affascinano, grazie al loro aspetto e alle loro capacità... e, in alcuni casi, troviamo delle costanti che riescono a colpire l'uomo: eleganza e bellezze innate, mistero, abilità predatorie ma anche capacità adattive all'ambiente umano. Sto parlando di un felino? Non esattamente! Oggi vi parlo del barbagianni, splendido rapace notturno che condivide con i felini alcuni tratti fondamentali.

Il barbagianni (Tyto Alba) è un meraviglioso rapace dal caratteristico piumaggio pallido, dal volo silenziosissimo e oscillante e dal tipico "disco facciale" a forma di cuore: il suo aspetto è inconfondibile e parte integrante del suo fascino. Vive in aperta campagna, ai margini di boschi e in ambienti rurali, ma anche in giardini cittadini sufficientemente tranquilli; nidifica in tronchi cavi, fienili, campanili, rovine e costruzioni antiche: anche questo va a comporre l'immagine di una creatura misteriosa e affascinante, capace di vivere - silenziosamente - ai margini dell'ambiente umano. E' un superpredatore notturno e crepuscolare, in grado di cacciare anche una ventina di topi a notte, specie se ha da sfamare una prole. Fa un verso particolarmente acuto e stridulo, non molto piacevole da sentirsi, talvolta inquietante.
(Continua su Rumore di Fusa)



E' finita l'estate (per quanto può valere. Parlo ovviamente della stagione). L'autunno è un periodo fantastico. I colori dell'autunno non sono paragonabili ai colori delle altre stagioni. Nemmeno lontanamente. Gli arancioni hanno milioni di tonalità. Questo è un breve racconto d'autunno. Quando l'arido del sole si trasforma in bruma della sera. Quando il turismo scompare, quando il silenzio torna incontrastato. Quando le sdraio si chiudono e si apre il volo del cormorano. Quando i rifugi alpini delle montagne smettono di dare da mangiare agli eserciti dei camminatori e lo stambecco torna a respirare. Quando le compagnie finiscono e si apre, finalmente, lo slancio introspettivo del proprio essere. Paul Verlaine (il poeta francese dell'800) disse:

Che bello l'autunno!
Buona lettura.
Olmo

Il volo silenzioso dell’Allocco: un racconto di fine estate

path through a dark forest at night
Ci sono notti in cui il buio è più buio del solito. Le ombre, della solitudine, non proiettano e le tonalità sembrano aver perso in quei momenti la loro spiccata voglia alla danza. Il bosco in quelle notti appare in tutta la sua infinita dolcezza consapevole di essere protetto da una maschera invisibile e per questo lancia slanci in direzione di suoni lontani e amici. Seduto su una roccia ricoperta da un muschio finalmente rinvigorito dalle piogge; ascolto. Inizialmente non odo nulla se non il mio cuore che saltella frenetico per abituarsi a un concetto a cui non siamo abituati; il silenzio. Un silenzio rotto dal respiro che lentamente ritorna a un ritmo naturale; quello dell’attesa. Poi, pian piano, ecco i primi flebili rumori. Una civetta lontana risponde con insistenza al fruscio del vento che, attraverso le foglie autunnali, fischia profondo la sua presenza. Più vicino un allocco. E’ occupato a prepararsi alla caccia, sbatte le ali e fa sentire che in quel momento è lui il predatore incontrastato della notte. Spicca il volo, sorvola quel piccolo uomo seduto sullo scoglio di montagna, si abbassa e, sfiorando i rami, parte. A una velocità tale che non mi da l’opportunità di scorgerlo in ombra. Sento il suo richiamo allontanarsi mentre il volteggio è appena accennato e si perde ad ogni respiro. Poi torna la civetta a presenziare quell’angolo di faggi. Dicono che l’allocco ha il terrore dei gufi, ne sta alla larga, io personalmente non lo so, ma dicono anche che il bosco di notte dorme, mai pensiero più falso. Nell’immaginario collettivo l’allocco è sinonimo di persona tonta, stupida, per via dei suoi occhi grandi e fissi. Sono sempre più certo che l’uomo che ha coniato questo luogo comune non abbia mai visto questo superpredatore nell’intento di cacciare. Probabilmente non lo ha mai visto in generale.

Il bosco di notte vive e vive di gran lunga più del giorno. Chiudo gli occhi, ora il buio è presente in tutta la sua vastità. Un rumore di foglie mi richiama, poco distante, un raspare divertito, laborioso. Poi, le zampe che creano quel vissuto, aumentano. Ora sono indistinguibili; una famiglia di cinghiali è all’opera. Come tutte le notti la famigliola esplora il bosco sapendo che in quelle ore i nemici acerrimi e vigliacchi non sono presenti, dormono sereni con le loro di famiglie, i fucili sotto il letto a una difesa del proprio status inutile e ridicola. Zoccoli veloci attraversano il canalone dietro di me, velocissimi, leggeri: un giovane capriolo. Lo si riconosce perchè corre rapido quasi sollevato dal terreno talmente è delicato. Il daino è più pesante e rumoroso, saltella creando un eco sulle foglie che si sente a centinaia di metri, di notte naturalmente, di giorno è quasi impossibile sentirlo. Quando invece i passi sono pesanti e fanno paura se ti passano accanto, allora quello è il cervo, e con lui non bisogna mai scherzare, soprattutto con le compagne che camminano di fianco, potrebbero non volere quell’odore che riconoscono come pericolo. L’odore acre di un predatore che con il bosco non ha nulla a che fare; lo sporca. Ancora vento. Le foglie si strappano e cadono al suolo, riesco a sentirne i tonfi leggeri che fanno quando si posano. Apro gli occhi, ora riesco a scorgere leggere ombre, certo non sufficienti per allontanarmi, troppi ostacoli tra me e il mio angolo riscaldato dalla legna. Tre ore buone per arrivare in quel canalone nascosto all’imbrunire. Al buio è quasi impossibile trovare il sentiero. Decido di dormire lì, la piccola vecchia tenda ancora ripara dall’umidità. Movimenti silenziosi, appena accennati, non uso il martello per i pioli, li infilo nel terreno spingendoli con gli scarponi. La civetta sembra grata di quel gesto delicato che non crea disturbo. Entro, mi infilo vestito nel sacco a pelo, fuori la temperatura è bassa, decisamente bassa. Chiudo gli occhi e nel momento in cui i muscoli si rilassano per l’arrampicata del pomeriggio e la camminata serale ecco che le ali dell’allocco sfiorano la tenda. Un grido netto e poi si rialza ben sopra gli alberi, mi spunta un sottile sorriso sulle labbra. Deve aver preso la preda, penso. Alcune notti sono lunghe, altre, eterne. Questa, fa parte delle infinite. In solitudine i tempi si amplificano. Ma non è una solitudine “malata” data dall’emarginazione sociale. E’ cercata. E difesa. Il sole non sorge mai, aspetto ancora minuti interminabili e poi esco dalla tenda, la chiudo, la carico in spalla e mi incammino.

Passo dopo passo il chiarore fa capolino e in un’ora sono nella radura. Un altopiano lungo un chilometro senza alberi, l’erba corta per l’altitudine, fradicia per le piogge. Tornare all’aperto mi da sensazioni contrastanti. Da un lato la “salvezza”, la vista si allunga. Riesco a scorgere distanze ben più ampie. Dall’altro “l’abbandono”, una sorta di saluto a quella che è stata, per alcune ore, la mia dimora protettiva. La dimora incomprensibile di una compagnia astratta, fugace, sorprendente. La dimora perfetta di un’antica, esasperata, richiesta di aiuto. Mi fermo, apro il tabacco e mentre sono intento a farmi una sigaretta, eccolo!

L’allocco della sera prima. Vola basso a un metro dal terreno, veloce come l’assiolo, ma due volte più grande. La sua apertura alare mette in soggezione. Percorre almeno duecento metri a rasoterra e poi, quando ho la netta sensazione che possa colpirmi, mi sfiora, fa una virata rapida, a destra, e rientra nella faggetta di lato. E’ un istante, ma difficilmente lo potrò dimenticare. Mi voleva salutare?, oppure mandare via dalla sua casa ?, era curioso?. Chissà, forse tutte e tre. Stringo i lacci degli scarponi, mi accendo la sigaretta, un ultimo sguardo alla radura a cercare il tocco di quel saluto all’alba e comincio a scendere dalle rocce. Mi prende una sensazione di tristezza, come quando osservi il volo della poiana, mille metri più in alto e mille chilometri più lontano della tua inutile convinzione di appartenenza. La guardi volteggiare, il suo richiamo inconfondibile ti spinge alla riflessione, lei, passeggera di crinali lontani, è sempre sola. Come me. Continuo a scendere. Non inciampo mai in montagna, chissà perchè. Nella vita di tutti i giorni mi capita sempre. Inciampo sempre. Cado e mi rialzo, in un susseguirsi di sorrisi e pianti. Attraverso un piccolo scoglio immerso nel muschio, giro la vecchia quercia colpita dal fulmine e la intravedo. La piccola casa misteriosa. Il sogno distratto di un abitante ombroso, sconfitto ma mai arreso. La “mia” casa. O almeno quello che il lampo di una sorpresa mi indica come spazio vitale.

I miei occhi cercano di vedere. Come quelli della talpa. E come loro graffiano e moltiplicano i sensi di aspettative future. Come la talpa cerco una vista diversa. Spengo la sigaretta, mi infilo il filtro in tasca e continuo la discesa. Tra sassi e ricordi. Tra fiori e speranze. Lì sotto, trecento metri più in basso, un comignolo solitario, storto come la mia esistenza, mi aspetta…



L'immagine può contenere: uccello

Se penso al gufo reale gli aggettivi da usare sono: maestoso, intelligente, raro. E poi bello, di quella bellezza vera, prodotta dall’evoluzione che plasma armonicamente forma e funzione. Una macchina perfetta, con vista acutissima, volo silenzioso e rapido.
Un’immagine fiera dunque, quella del gufo, che solo l’ingenuità delle tradizioni popolari ha trasformato in simbolo del malaugurio per il suo stile di vita solitario, notturno e quei vocalizzi che solcano il buio. Ci sono però anche credenze contrastanti. Il gufo era simbolo di saggezza per gli antichi ateniesi, associato alla dea Athena. Il ciondolo a forma di gufo in molti paesi si ritiene porti bene e tenga lontano i malanni. Insomma ci vorrebbe attenzione a definire «gufo» un avversario
(Danilo Mainardi)

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