mercoledì 24 ottobre 2018

Lo sguardo altro della talpa: una visione antispecista nel dominio del linguaggio

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di Joan Dunayer

"Un sostantivo è una persona, un luogo o una cosa," ci troviamo spesso a dire, da bambini. Che cosa sarebbero gli animali non-umani, allora? Non sono persone o luoghi, così - la convenzione ci dice - devono essere delle cose. Questa destinazione d'uso corrente è specista. Esso glorifica la specie umana e sminuisce tutte le altre.
Proprio come il linguaggio sessista svilisce le donne e le esclude dalla giusta considerazione, il linguaggio specista svilisce ed esclude gli animali non-umani. Quando releghiamo altri animali alla categoria di "cose", omettiamo di riconoscere la loro capacità senziente, la loro individualità e il loro diritto all'autonomia.
Molte espressioni ed epiteti comuni si rifanno ad altre specie come modi per insultare un umano: stupido come un asino, testardo come un mulo, avere un cervello da gallina, vacca, troia, oca, porco, maiale, verme, civetta, coniglio, somaro etc.. Tali confronti sono indirizzati verso gli animali non umani, sui quali proiettiamo i nostri propri tratti negativi. Nessun maiale, ad esempio, suda come un maiale. Dato che i maiali possedendo poche ghiandole sudoripare, mancano della stessa perspirazione attraverso la pelle come gli umani. 

Applicato ad un essere umano, il semplice nome di un altro animale agisce come invettiva: "verme, maiale, vacca, oca". Perché? Altre specie sono considerate inferiori. Nella loro continua evoluzione, tuttavia, le specie animali si muovono verso un maggiore adattmento all'ambiente, non una maggiore "umanità". 
La parola "animale" serve come un epiteto per una persona che ha commesso un atto particolarmente brutale (verso un'altra persona). Al contrario, diciamo "umano" con un palpito di riverenza quando si tratto di un atto di gentilezza o compassione. Si tratta di auto-gratificazione, come se fossimo l'unica specie intelligente sul pianeta, come se fossimo dotati di una intelligenza "migliore" oppure come se fossimo la sola specie ad essere capace di gesti "umani".
Insomma, eleviamo la nostra "umanità" a valore supremo.

Ci dimentichiamo facilmente che la "gorillità" è più pacifica, "la civettità" vede meglio di noi e che "mucchità" è meno egocentrica della specie umana. Altre specie hanno facoltà e comportamenti che che a noi mancano, nonostante la nostra capacità di inventare nuovi strumenti.
Ogni essere senziente è un qualcuno, non un qualcosa. Celando questa verità, il linguaggio specista normalizza e giustifica la crudeltà. Presto, si spera, i bambini impareranno, "un sostantivo è un animale, un luogo o una cosa." Con un linguaggio non specista, noi possiamo insegnare il rispetto per tutte le creature.





Quanto è importante il linguaggio?
Quante linee può veicolare?
Quante discriminazioni può contenere?
I linguaggi sono molteplici. E' linguaggio la scrittura, la scultura, la pittura, l'illustrazione, i fumetti. E' linguaggio il corpo, il movimento, l'odore, i sensi. E' linguaggio il vento, la pioggia, le foglie che cadono. Ed è proprio il linguaggio (in questo caso umano) che può liberare, autodeterminare oppure ghettizzare, escludere, privare, normalizzare, etichettare, massificare, illudere, reprimere.
Non se ne parla mai abbastanza.


Buona lettura..

Olmo Vallisnera

Lo sguardo altro della talpa: una visione antispecista nel dominio del linguaggio



un figlio di cane
rimbambita come un allocco
inutile come una nutria
scema come un’oca
ubbidiente come un cavallo
muto come un pesce

Sei una troia
un vero stallone
lercio come un topo
brutto come un tacchino
fastidioso come un corvo
gufo del malaugurio

Puzzi come un maiale
schifoso come uno scarafaggio
sei viscida come un serpente
ignorante come una capra
ti fregano come un pollo
stupido come un asino
grassa come una vacca

Sei peggio di uno squalo
noioso come un pappagallo
cervello da gallina
vigliacco come un coniglio
assomigli a una scimmia
ti comporti da pecora

Quanta “innocente” violenza possono contenere le parole, quante menzogne i termini. L’arroganza di credere di essere superiori solo perchè dotati di “linguaggio” è l’anticamera del lager. La convinzione di esserne i detentori unici e assoluti è la lama della società. Usare, oggettivizzare gli altri animali per insultare, ferire, denigrare, ghettizzare, depredare, ridicolizzare, isolare, mercificare, ergendosi a viventi degni e legittimi di un mondo abitato da infinite differenze, moltitudini di peculiarità, è l’assoluta e totale visione del dominio. Ancora oggi, forse più di ieri, i termini sono utilizzati e “bloccati” in visioni miopi e senza sfondo. E’ un lavoro lungo e paziente ma deve essere affrontato. Martin Luther King disse:

“Il giorno che smetteranno di chiamarci negri o di colore e inizieranno a rispettarci chiamandoci neri, non avremo certo vinto la guerra ma sicuramente la battaglia più importante. Quella si.”

Ultimamente si sono riscontrate alcune problematiche all’interno di quello che possiamo definire il “Movimento libertario” (non è esattamente questo il nome che vorrei dare ma è per renderlo fruibile e allargato a tutte quelle realtà che lottano contro le discriminazioni). Vignette dove gli altri animali sono considerati nocivi, violenti. Assimilati e paragonati alla repressione, all’ingiustizia, alla violenza di genere. Ecco che il maiale (raffigurato in soggetto predatore) diventa l’involucro delle peggiori nefandezze: il sessismo, il fascismo, il razzismo. Da animale sfruttato si trasforma in feroce esecutore di predominio e intolleranza. L’asino da animale resistente acquista valenza negativa e tesse le lodi di concetti quali: ignoranza, bullismo, superficialità. Il topo si veste della divisa del fascista, dello sporco elevato a pericolosità sociale. E cosi via. In una continua legittimazione del linguaggio dominante. “Sono solo vignette”, mi dicono. Innocenti e spiritose. Ma anche nell’800 e fino al 1960 esistevano vignette contro i neri, i cinesi, i mongoli, i vietnamiti, gli ebrei, gli italiani, i messicani, le donne, i gay, le trans, i mutilati, etc, etc, etc. (in realtà ancora oggi). Nessuno di loro rideva. Nessuna di loro le riteneva innocenti e spiritose. Vignette che amplificavano le diseguaglianze e moltiplicavano il concetto dell’Io “superiore”. La storia è costellata di disegni superficiali che hanno contribuito al sostentamento della discriminazione. Le vignette, storicamente, sono state tra i tentacoli dell’aspetto generale del linguaggio discriminatorio. Sia da destra che da sinistra.

Spesso sento dire. “Ci sono cose più importanti di una vignetta. Ci sono cose più importanti di un linguaggio “specista”, più importanti e più urgenti”. Io mi chiedo: Che cosa è importante? Cosa urgente? Perché Martin Luther King disse quella frase? Forse non sapeva quali erano le urgenze del movimento di lotta dei neri americani? O le “cose” importanti?. Lo disse perché comprese di quale portata rivoluzionaria può essere il “linguaggio estraneo” (al conflitto). Il linguaggio che include e non esclude. Un linguaggio basato sul rispetto del singolo e della minoranza sfruttata. L’importanza o l’urgenza delle istanze politiche chi la decide? Se da una parte possiamo parlare di soggettività del singolo (-Io ritengo cosa sia importante o urgente e cosa no-) dall’altro lato è verosimile parlare di oggettività nella collettività. Nel secondo caso, sicuramente, ci sono cose più importanti da fare di altre. Il linguaggio verbale rientra nelle istanze urgenti? Certo che si. E’ il veicolo di qualsiasi approccio politico. Non ci sogneremmo mai di disegnare, oggi, una donna fascista che frusta altre donne. Perché? Come non parleremmo, ad esempio, dei popoli ancestrali del pianeta, come a dei selvaggi sporchi e cattivi. Forse ci sentiremmo spiritosi a disegnare una persona senza gambe intenta a rotolare sull’asfalto per andare a comprare da mangiare? E allora mi chiedo: Quanto siamo “simpatici” a utilizzare il maiale, tramutandolo in mostro, per dare forza a un pensiero contro la discriminazione? Eduardo De Filippo direbbe: “Non ci azzecca niente”. Sono le parole che hanno mosso la società dominante nella storia, non le azioni. Quelle sono venute dopo gli “ordini”. Il lavoro non solo è lungo e paziente ma ciclopico. Quante donne danno delle troie ad altre donne? Quanti uomini, per insultare, usano termini “virili”?. Quanti e quante si fanno forza con termini difficili e incomprensibili per mettere in difficoltà e in imbarazzo soggetti più fragili? Per dimostrare potere e superiorità intellettuale? Tanti, troppi. Non ho soluzioni, ovviamente, come nessuna di noi. Ma il sentiero è presente da sempre, bisognerebbe solo cominciare a vederne i contorni. Il termine “discriminazione” non può essere frainteso. E non ha certo barriere di specie. Se vogliamo vivere in completa serenità, in pace, senza diventare a nostra volta discriminati, dovremmo contemplare la totalità delle discriminazioni. Il soggetto discriminato diventa la sorella, il fratello. Il corpo “altro” ghettizzato o sfruttato risulta diventare il nostro corpo. Ghettizzato e insultato. Se esiste una società dominante è perché il linguaggio ha contribuito a fondarne le colonne portanti. Destabilizzare e de-costruire il linguaggio può tramutare lo stesso in fuoco e incenerire le stesse colonne. E il “linguaggio”, non si finisce mai di ripeterlo, non è quello dell’uomo. Sono infiniti i linguaggi. Ma è quello dell’uomo che ha creato le discriminazioni. Cominciare a osservare, in punta di piedi, gli altri “modi” di comunicare, sarebbe già un passo importante in avanti. Il movimento dei corpi è linguaggio, ancora prima della parola. Dove esiste movimento armonico del corpo non esiste discriminazione. Viviamo in una società di tale violenza nel linguaggio che (anche solo pensare di combatterla) sembra impossibile porvi rimedio. Nello stesso momento viviamo all’interno della stessa società escludente e non ne siamo affatto contenti. Cominciamo a non usare le immagini o la parola per discriminare, cominciamo ad affrontare le istanze urgenti (fascismo in testa) con la consapevolezza che il “linguaggio” è importante. E non si può più giocare.
Vedere lo sfruttato nella totalità e non più soltanto nell’aspetto del “corpo”. O la diversità, o la peculiarità, o la specie di appartenenza. O la scelta. Per quel maiale, quell’asino, quel topo i fascisti siamo noi. Che sia chiaro questo concetto. Siamo noi i predatori. Come i “bianchi” lo erano coi “neri”, Gli uomini con le donne, i padri con le figlie, i ricchi con i poveri, i soldati con i civili e così via. In una devastante circoncentrica visione “universale”: quella dello sfruttatore sullo sfruttato. Del privilegio sulla disperazione. Non esistono a oggi ricette, è vero. Ma iniziare a mettere il sale dove serve, il piatto dividerlo, l’acqua donarla, la sedia cederla, il corpo comprenderlo, la fragilità farla nostra, è un buon inizio. Siamo solo esseri umani, non siamo Dei. E non lo saremo mai. Fortunatamente. Io soffro perchè le altre soffrono, piango perche gli altri piangono, sono sfruttato perchè al fianco ho gli sfruttati. Non mi interessa se hanno due o quattro zampe, orecchie diverse dalle mie, colore dela pelle, movimenti altri, linguaggi altri. Mi interessa, invece, la loro appartenenza al mondo degli oppressi. Questo voglio combattere: la discriminazione in base alle “diversità” del soggetto. Il soggetto lapidato e derubato della sua soggettività.

Sono, ad esempio, testimone di slanci coraggiosi di conigli in difesa della propria prole di tale portata da far impallidire generali buffoni di corte. Intuizioni destabilizzanti in movimenti e decisioni rapide in galline da poter affermare con giustezza di non averlo mai riscontrato nei pallidi professori sazi di nozioni. Ho visto mantelli luciccanti al sole in armonie di colori perfetti in maiali liberi, silenzi antichi e colmi di dignità in piccoli pappagalli segregati, corpi di sinuosa autodeterminazione in vacche ribelli, criniere intrise di rivolta in cavalli braccati e derisi, misteriose corde sinfoniche in capre dalle lunghe corna, pecore solitarie seguire i raggi della luna in sentieri inaccessibili imprimendo al terreno nuovi passi di vera indipendenza. Questo sono gli altri animali. Non è il linguaggio verbale che determina l’appartenenza ma l’autodeterminazione del corpo in funzione della sua libertà. La superiorità non esiste. Esiste invece il mutuo aiuto, lo scambio delicato, il rispetto totale. Non siamo qualcosa di più. Corpi, solo corpi.

Kropotkin disse: “L’evoluzione della specie non si misura in forza e debolezza, non attiene alle forme che conosciamo noi, non significa predominio. Gli animali si aiutano, utilizzano il mutuo appoggio, il dono, la solidarietà, la comprensione, il linguaggio del corpo, la fratellanza. Come studioso ho dentro di me ormai la certezza che l’animale scambia il proprio sapere con gli altri. Non vi è egoismo o rapina. Quando un animale è malato viene aiutato dal gruppo, difeso, protetto. Non viene ucciso. L’evoluzione è questa: Partecipare attivamente nel migliorare l’esistenza del singolo e della collettività. Senza discriminazione alcuna”

Osservando la lotta del mulo, schiavo e carico in salite a lui nemiche, ho imparato la ribellione.




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Quando si dice… un sogno
Occhi di cerbiatto fugaci
mi appaiono
in quella campagna
dove stormi di uccelli divertiti
beccano quei semi
lasciati da un trattore distratto
Mi sveglio
e quegli occhi li ritrovo
tra un sorriso e un ironia
continuano a rallegrare
la monotonia
di una giornata
lunga e silenziosa
(Donatella Quintavalla)
Foto by LIBERACTION

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