venerdì 11 gennaio 2019

Tolleranza zero, anzi tolleranza 51


L'immagine può contenere: cielo, oceano, montagna, nuvola, spazio all'aperto, natura e acqua

Ciao,
Alcuni mi chiamano Natura.
Altri mi chiamano Madre Natura.
Sono qui da oltre 4,5 miliardi di anni.
22.500 volte più a lungo di te.
Non ho bisogno dell'uomo.
Ma l'uomo ha bisogno di me.
Ebbene si. Il tuo futuro dipende da me.
Se io prospero tu prosperi.
Se io vacillo tu vacilli.
O peggio.
Sono stata qui per miliardi di anni.
Ho nutrito specie più grandi di te.
E ho fatto morire di fame specie piu grandi di te.
I miei oceani.
La mia terra.
I miei corsi d'acqua.
Le mie foreste.
Possono prenderti o lasciarti andare.
Come decidi di vivere ogni giorno, se mi rispetti o no, non ha importanza per me.
In un modo o in altro le tue azioni determineranno il tuo destino.
Non il mio.
Io sono la Natura.
Io vivrò ancora.

La Natura non ha bisogno dell'uomo. 
L'uomo ha bisogno della natura.




Tolleranza zero, anzi tolleranza 51

Cara mamma,

siamo sbarcati. Anzi no, in realtà siamo naufragati: la barca a vela su cui eravamo 51 (sì, lo so, non si sale su una barca a vela nel mezzo dell'inverno e col mare brutto, ma non avevamo altro per scappare, per navigare) si è rovesciata nel buio, e noi urlavamo, urlavamo e pensavamo di morire.

E invece no: ci hanno salvati. Non sai, mamma, che bella gente c'è qui, in questo posto che si chiama Calabria. Sono venuti tutti: quelli che stavano in un albergo, il Villaggio Miramare, il sindaco Gino Murgi (mi hanno raccontato questa cosa strana, in questo strano paese: tutti i governanti grossi sono contro di noi, naufraghi e fuggitivi, mentre tanti governanti piccoli, li chiamano sindaci, ci aiutano sempre, e poi i governanti grossi se la prendono coi governanti piccoli, pensa che strano, mamma), certi agenti che chiamano Fiamme Gialle, e poi soprattutto la gente è scesa in spiaggia, che di notte è buia e fredda, e ci hanno portato coperte, e cibo caldo, e vestiti, e soprattutto ci hanno portato facce che sorridevano, e mani e braccia per sostenerci, che eravamo fradici e spaventati, e un poco pure ci vergognavamo, mamma, di arrivare così, e avevamo paura non solo del mare e del buio, ma soprattutto degli altri.

Ci avevano detto che in questo paese strano i porti sono chiusi, ma qualcuno ieri ci ha spiegato che no, si è messo a ridere e ha detto che non è vero, nessuno li ha chiusi veramente, lo dicono solo in tv per tranquillizzare la gente, ma ti può succedere che solo per te siano chiusi, per la tua piccola nave o barcone o barca a vela, e la chiamano "propaganda", ma non so bene cosa significa.

Qui il paese si chiama Torre Melissa, e mi hanno detto che "melissa" nella loro lingua antica è l'ape, "quella che fa il miele". Mamma, qui le persone fanno il miele, e nemmeno lo sanno.



L'immagine può contenere: nuvola, cielo, erba, albero, spazio all'aperto e natura

ISOLA DI PASQUA: STORIA DI UN COLLASSO DI CIVILTÀ CHE CI SOMIGLIA PERICOLOSAMENTE 

Se qualcuno vi descrivesse una società che si sviluppa consumando più risorse di quelle che ha disposizione, che mette a rischio l'ecosistema in cui vive per realizzare beni inutili, a chi pensereste?
Non di certo all'isola di Pasqua, la cui storia è però sempre più attuale.
Fu l'esploratore Jakob Roggeveen, la domenica di Pasqua del 1722, il primo europeo a mettere piede su quest’isola posta a più di 3.000 km dalle coste cilen.
Al momento dello sbarco trovò circa 400 statue, dette "moai", alte dai 4,5 ai 6 m, e del peso di svariate tonnellate, spesso posizionate sopra gigantesche piattaforme, gli "ahu". Roggeveen non sapeva capacitarsi di come tali enormi costruzioni potessero essere state realizzate dai nativi che avevano trovato sull'isola. Qualche migliaio di persone, spesso malnutrite, e incapaci di utilizzare anche alcuni degli attrezzi più elementari. Quello che gli europei non sapevano è che si trovavano dinnanzi ai superstiti del collasso di un'intera civiltà. 
Secondo archeologi e palentologi l'isola di Pasqua vide arrivare i primi uomini intorno al 900 d.C. Si trattava di polinesiani che vi si stabilirono e prosperarono. Al culmine della sua espansione, questa civiltà contava 15.000 abitanti, stratificati in gruppi sociali e divisi in dodici clan, che occupavano dodici "distretti" dell'isola. Probabilmente intorno all'anno mille essi iniziarono a costruire i moai, simboli religiosi ma soprattutto di prestigio dei vari clan. Con il tempo ogni gruppo cercò di costruire statue e piattaforme sempre più grandi per dimostrare il proprio potere e ostentare la superiorità rispetto ai rivali.
I moai, realizzati nelle cave al centro dell'isola, erano portati fin sulle spiagge attraverso dei sentieri lastricati di tronchi. Servivano decine di persone per scolpirle e centinaia per trasportarli. Questo lavoro assorbiva quindi tutte le energie dei clan, i cui capi erano costretti ad immagazzinare larghe scorte di cibo per l'intero tempo dei lavori. 
Nel giro di 600 anni le conseguenze di questa gara divennero catastrofiche. La deforestazione non aveva lasciato in piedi un solo albero più alto di due metri. La caccia intensiva aveva fatto estinguere diverse specie di uccelli. Senza legno non si poterono costruire canoe e la pesca divenne quasi impraticabile. Intanto l'assenza delle grandi palme provocò un radicale mutamento del microclima dell'isola. Diminuzione delle risorse idriche ed erosione peggiorarono drasticamente le rese agricole. 
Quando il cibo iniziò a scarseggiare scoppiò una guerra civile. Il cannibalismo prima sconosciuto prese rapidamente piede. 
I sopravvissuti al collasso profanarono e distrussero le statue. 
Come mai non si sono fermati prima? Ebbene la risposta non la conosciamo, tuttavia potrebbe somigliare pericolosamente alla stessa per cui nemmeno noi lo stiamo facendo. 

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