martedì 12 gennaio 2016

Smettiamola di preoccuparci del lavoro





di Francesco Gesualdi


Globalizzazione e austerità hanno certificato che questo sistema di lavoro non ne creerà più. E non sappiamo se salutare la notizia con un grido di dolore o un urlo di gioia. Per cominciare di quale lavoro stiamo parlando?

La domanda è d’obbligo perché se ci guardiamo attorno, di lavoro da fare ne vediamo a bizzeffe: edifici pubblici e privati da rimettere a posto, argini di fiumi da rinforzare, città da ripulire e buche da sistemare, bambini svantaggiati da sostenere e anziani da assistere. Avessimo voglia di fare, non ci sarebbe che l’imbarazzo della scelta. Eppure continuiamo a dire che non c’è lavoro.

La verità è che non sono le cose da fare che mancano, ma una forma particolare di lavoro, il lavoro salariato, che pur essendo solo una delle tante forme possibili è diventata così dominante da averci fatto dimenticare tutte le altre.

Il lavoro salariato è quello destinato al mercato e dopo averci tolto qualsiasi possibilità di provvedere a noi stessi, se non prostituendoci in cambio di un salario da poter spendere nei supermercati per procurarci ciò che ci serve, oggi ci sentiamo dire che non c’è più bisogno di noi.

Noi continuiamo a ritenerci persone, ma per le imprese siamo solo un costo da abbattere e quando robot e bengalesi diventano più convenienti di noi, ci trasformiamo automaticamente in avanzi.

 
Gente in sovrappiù, prima sedotta e poi abbandonata, che, certo, qualche problema al sistema lo dà. Non tanto per la disperazione che ormai si taglia a fette con il coltello, ma per la diminuzione dei consumi che un abbassamento della massa salariale inevitabilmente comporta. Ma per questo, un rimedio fino ad oggi il sistema l’ha trovato. “Indebitati che ti passa” sembrano dirci le concessionarie che ci offrono le auto a rate o i supermercati che ci mettono nel portafoglio una carta prepagata che per un mese ci dà l’illusione di comprare gratis.

Peccato che poi i debiti vanno pagati e passato il tempo breve della cicala, rimane quello lungo, a volte perpetuo, degli stenti, tutto orientato al pagamento di interessi e capitale. Ed allora la situazione si fa peggiore non solo per i malcapitati debitori, ma per l’intero sistema perché l’unico modo per restituire i debiti è tirare la cinghia. Che significa riduzione dei consumi e a ruota contrazione della produzione, come ci insegna l’austerità ormai assunta come principio guida della gestione di ogni bilancio pubblico.

Al punto in cui ci troviamo abbiamo solo due scelte.
La prima: buttarci sempre di più nelle braccia del mercato.
Che significa concepirci definitivamente come una merce destinata ad apprezzarsi o a svalutarsi in base all’andamento del mercato. Ed oggi che siamo poco richiesti accettare di abbassare il nostro prezzo e i nostri diritti fino al livello di schiavitù, come succedeva nel 1700 allorché si producevano solo beni di superlusso per una esigua minoranza superprivilegiata.

Se questa prospettiva non ci piace, non ci rimane che un’altra strada: ammettere di essere stati vittima di un grande imbroglio e organizzare un mega vaffaday all’indirizzo del lavoro salariato.

Avere il coraggio di gridare in faccia a mercanti, affaristi, multinazionali, banche, assicurazioni, fondi pensione, che possiamo fare a meno di loro. Anzi che senza di loro facciamo anche meglio, perché non è vero che il solo modo per provvedere ai nostri bisogni è attraverso il mercato. Esistono anche i fai da te individuali e collettivi che usano come ingredienti l’uso diretto del lavoro, lo scambio alla pari, la solidarietà collettiva. Per secoli ci hanno ripetuto che senza di loro, i padroni della terra prima, dei capitali dopo, non saremmo andati da nessuna parte.

Ed alla fine ci abbiamo creduto, ci siamo convinti di essere dei mentecatti incapaci di organizzarci per soddisfare i nostri bisogni. Ma ora è arrivato il momento di dimostrare il contrario. Non solo per una questione di sopravvivenza, ma per ridare speranza alla dignità, alla libertà, alla sovranità e per finire alla sostenibilità.

In tempi di crisi economica, l’ambiente è il grande protagonista che scompare di scena. Gli sforzi tutti tesi a corteggiare gli investitori per ottenere qualche posto di lavoro e qualche punto di Pil in più per pagare i debiti (a questo serve la crescita), dimentichiamo la drammatica situazione in cui versa il pianeta, sempre più povero di risorse e sempre più intossicato da veleni e rifiuti come mostra il collasso del clima. Ed allora dobbiamo recuperare il dibattito sul lavoro tenendo anche conto che per fare pace col pianeta non dobbiamo produrre di più, ma di meno. O quanto meno diverso, che non è lo stesso progetto della green economny, nuova frontiera del capitalismo per ridare impulso alla crescita in un momento in cui i consumi ristagnano.



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